martedì 30 settembre 2014

un uomo degno

Con Carlo Alberto e Donatella e certi loro amici di bicicletta ho fatto a febbraio di quest’anno il viaggio in Colombia e Panama, poi non ci siamo più visti, però l’ultimo ricordo è bellissimo e ne ho le prove, oltre alle foto,  anche un filmino che ho girato quella sera a San Agustin mentre ballavano tutti in grande allegria nel ristorante della nostra guida, l’effervescente Hugo. (http://www.saranathan.it/2014/03/hugo-da-verona.html). Poco dopo il ritorno da quel viaggio, dei malesseri, delle analisi e l’infausta diagnosi: nel giro di pochissimi mesi Carlo Alberto, amico da  una vita, perché 30 anni e passa di frequentazione sono una bella fetta di strada, se n’è andato.  Durante la malattia non l’ho incontrato, forse per dispiacere, forse per imbarazzo e poi la sofferenza esige discrezione e l’ho rispettata; non ho potuto partecipare neppure al funerale, ma pare che ci fosse un sacco di gente perché erano in molti a volergli bene.  Anno terribile questo 2014, ha visto partire per il lungo viaggio molte persone a me care. 
Per stare finalmente insieme  all'amica, per ritrovare e salutare lui nei luoghi che amava, sono andata in questi giorni in Valpolicella, a Negrar, nella sua campagna del cuore. E i luoghi, altrettanto significanti che le persone, cambiano, si trasformano e parlano; raccontano storie di passione, cura e dedizione di coloro che li hanno abitati: una vecchia proprietà di famiglia che era un rudere e che è ritornata a vivere, ogni angolo di casa e giardino amorevolmente valorizzati e tutti quei bellissimi tralicci di viti a pergola e a spalliera che si snodano lungo i filari tappezzati d'erba e che ogni anno rinnovano i loro doni, quei grappoli d'uva straordinaria per il recioto, per l'amarone, vini pregiati che non hanno certo bisogno di presentazione.
E non solo l'uva, ma gli alberi ricchi di pere, mele, mele cotogne e avanti con le marmellate, i melograni rossi rossi, i cachi ancora indietro, le dalie in fiore, un vero festino della natura di fine estate con i primi colori dell'autunno che bussa alla porta.


Vado a cercare Oscar, un robot dal nome da maggiordomo che anni fa, quando Carlo Alberto me lo aveva presentato, mi aveva molto divertito, ma la sua casetta è vuota, affidabile ed ubbidiente fa autonomamente il suo orario di lavoro ed è in giro a tagliar l'erba.
Erano  proprio i giorni della vendemmia, quel momento cruciale accompagnato da grande attenzione perché rappresenta il fine più o meno riuscito del lavoro di tutto un anno; i grappoli di prima scelta destinati a divenire il nettare degli dei, l'amarone più pregiato, adagiati uno per uno con mille precauzioni manco fosse un neonato, poi gli altri, ammonticchiati in cassette e quelli tagliati e scartati per terra perché non sono come dovrebbero. Sentendo parlare di vitigni dai nomi diversi, di caratteristiche dell'acino,  del tasso di alcolicità dell'uva, della fatica del ceppo, di confronti con gli anni passati per quantità e qualità, di  regole e normative a mai finire, si intuisce la complessità del mondo della vite, insieme all'ulivo forse la pianta più antica della storia dell'umanità.  

Si intuisce che quello del vino è un mondo ricco e affascinante e non solo perché George Clooney in un film si era messo a fare il coltivatore. Intorno alla vite, un lavoro che non è solo lavoro, ma vera passione e Carlo Alberto questa passione ce l'aveva proprio. Osservo la bellezza di questa campagna, il borgo di Marano sulle colline in lontananza, sfondo al grappolo maturo che aspetta di essere reciso, osservo l'amica che si muove fra i filari, che lavora con gli uomini, che fa domande, vuole capire e imparare e l'ammiro perché con grinta e volontà si ritrova a dover far fronte per la prima volta a saperi  che ancora non le appartengono, eppure sembra voler accettare la sfida. In una pausa dal lavoro si beve, si parla, si mangia del formaggio e qualche salatino; c'è una famiglia intera, padre, madre e figlio  che vendemmia in quella campagna da non so quanti anni. Con l'essenzialità tipica di tutti coloro che lavorano la terra e che non hanno tempo né inutili parole da sprecare, la  donna si rivolge a me e dice: " Era un uomo degno" e quelle quattro parole mi sono sembrate dire tutto.    

mercoledì 24 settembre 2014

il congiuntivo ai Caraibi

E se vi dicessi che ai Caraibi esiste un arcipelago di isole un po' strano? E' abitato dagli umani, da una ricca fauna, da una lussureggiante vegetazione, ma anche e soprattutto dalle parole, parole di tutti i tipi, avverbi, pronomi, nomi, aggettivi, verbi e quel pizzico di sale che talvolta ci si mette sopra, ovvero gli accenti. Seguendo la logica di questo arcipelago pare che gli accenti siano come le spezie per gli alimenti, danno sapore alle parole.

E se vi dicessi che sull'arcipelago regna seminando il terrore un dittatore, il nefasto Nécrole, che si fa chiamare "Monsieur -le-Président-à-vie-et- même- au- delà"? Lui trova che i suoi sudditi parlino troppo, un grande spreco di parole scritte e orali e allora ha proibito quelle inutili, anzi, come risulta dalla circolare ministeriale 453 del 2-02-2013 ne ha autorizzate soltanto dodici: nascere, mangiare, bere, urinare, defecare, dormire, divorziare, sposarsi, lavorare, invecchiare, morire e naturalmente acclamare che per ogni tiranno è indispensabile. E allora tutte le parole proibite si sono ribellate, hanno sfilato in manifestazione brandendo grandi cartelli protestatari fino davanti al palazzo presidenziale, ma Nécrole ha perso l'occasione di catturarle tutte con una grossa rete, mentre erano là riunite in piazza e le ha fatte invece disperdere con gas lacrimogeni. "Se perdiamo le parole, non servirà più incendiare i libri come si è fatto in varie epoche storiche, anche ai nostri giorni, nessuno potrà più raccontare niente, ma come si farà a capire qualcosa?" si interrogano gli abitanti dell'arcipelago che votano la loro solidarietà con le parole e la guerra a oltranza  contro Nécrole. Nel frattempo le dodici parole autorizzate, ospitate con tutti gli onori in un'ala del palazzo presidenziale, conducono una vita lussuosa, ma si annoiano da morire, sbadigliano in continuazione; come "morire" che pure ha a disposizione tanto di bara a forma di Ferrari, come per esempio il verbo "mangiare" che certo non si diverte se non può essere accompagnato da nessun commento, da nessun apprezzamento: perbacco com'era buono! che leccornia! rapanello, avocado, lepre in salmì, vinaigrette, charlotte alle pere Williams... le parole hanno il potere di arricchire un piatto, sono anch'esse un nutrimento.
E se vi dicessi che laggiù, in quelle isole lontane è operativa una "fabbrica delle parole"? Se ne inventano di nuove ad ogni istante perché il mondo va avanti, un continuum di scoperte in progress e servono le parole per definirle e poi in quella fabbrica capita di assistere anche a scenate di gelosie fra i sinonimi: per esempio "serenità, gioia, contentezza, letizia, piacere, allegria, beatitudine" ce l'hanno su a morte con "felicità" che la fa da padrone, è sempre lei la più citata, la più chiacchierata,  la più agognata, la più scritta e le altre si sentono trascurate. Come ogni stato che si rispetti, poi, su una delle isole dell'arcipelago esiste addirittura un ospedale per le parole malate: corridoi vuoti, nessuna infermiera, ma l'eco di sottili gemiti che dicono la sofferenza inferta da noi umani alle parole: immobile sul suo letto, pallidissima, esausta, giace una piccola frase "je t'aime", solo sette lettere e un apostrofo. -"Sono un po' stanca" - sussurra con un fil di voce- "sembra che ho lavorato troppo. Mi devo riposare". Tutti lo pronunciano a oltranza questo benedetto "je t'aime", nota l'autore, ma bisogna fare attenzione alle parole, non adoperarle a caso, proteggerle, non servirsene come menzogne, perché anche le parole si consumano e talvolta è troppo tardi per salvarle.

E se vi dicessi che da quelle parti può capitare di incontare Antoine, si, proprio quello del Piccolo Principe, e un pallidissimo Marcel chino sulla sua Recherche che non finisce mai e Jean (de la Fontaine) circondato da tanti animali che sembra di essere nell'arca di Noè? Già, quando la morte si avvicina a un grande scrittore, le sue amiche parole, all'ultimo istante, lo rapiscono e lo portano sull'isola, qui e solo qui potrà continuare a vivere grazie alle sue parole impresse per sempre sui fogli bianchi. Senza quelle sue pagine scritte è come se lo scrittore morisse una seconda volta.
Per finire, navigando qua e là si approda all'isola più interessante, quella dei congiuntivi. Lasciamo perdere l'isola degli infiniti che come dice Nécrole non sanno quel che vogliono, lasciamo perdere quella degli imperativi che litigano in continuazione perché tutti comandano e ognuno vuole aver ragione, facile da sottomettere per il dittatore anche il condizionale, un perditempo verbale che emette solo ipotesi e che non ha mai il coraggio di affermare quel che pensa veramente, ma il congiuntivo, ah, il congiuntivo è un'altra cosa! Il congiuntivo è un nemico dell'ordine costituito, un eterno insoddisfatto che da mane a sera desidera o dubita. In un mondo che vuole solo certezze- si può mai costruire una civiltà partendo dal desiderio e dal dubbio? - si chiede Nécrole. Già, il sogno è pericoloso per l'ordine sociale, una malattia nefasta perché evoca l'universo del possibile "vorrei che tutti gli uomini fossero liberi", per esempio. "Réclamer le possible, tout le possible, c'est critiquer le réel, le monde tel qu'il est, la pauvreté, les injustices..."  Il sogno sarebbe dunque una battaglia, una battaglia contro la realtà, una battaglia per migliorare la realtà e il congiuntivo risulterebbe il più rivoluzionario dei tempi verbali, per questo il tiranno Nécrole, assetato di "status quo", lo teme e lo vuole eliminare.

Esiste veramente sulla carta geografica un arcipelago come questo? Prima che la fantasia straordinaria di Erik Orsenna lo inventasse era certo introvabile, ma adesso no, c'è, ed è vivo e vegeto. Delle riflessioni profonde piene di poesia come solo le favole sanno essere, un dono prezioso dello scrittore a tutti coloro che amano quel tesoro inestimabile che è ogni lingua. A proposito, se qualcuno ha l'intenzione di organizzare un viaggio da quelle parti, che me lo faccia sapere subito per favore, vorrei aggregarmi anch'io.

lunedì 22 settembre 2014

criticare Israele si può.....



"Mai un appello di intellettuali occidentali rivolto ad Hamas o ad Al Qaeda o agli Ayatollah affinché rinuncino alla violenza, all’odio razzista, ai missili, ai kamikaze, al terrorismo. Mai. Nemmeno un tweet. Gli intellettuali occidentali si appellano solo a Israele, perché si ritiri, perché rimuova l’embargo, perché fermi l’esercito. E poi boicottano. Boicottano gli studenti israeliani, i professori israeliani, anche le aziende israeliane di acqua gassata. In teoria, ma solo in teoria, tutto questo potrebbe anche avere un senso perché Israele è un Paese democratico con un’opinione pubblica che può influenzare le scelte del governo, mentre le altre sono organizzazioni terroristiche di stampo religioso non particolarmente sensibili alle prediche peace&love.
Ma è inutile girarci intorno: l’antisionismo è il nuovo antisemitismo. È una versione aggiornata, ipocrita e politicamente corretta dell’antico pregiudizio antiebraico ben radicato a destra come a sinistra nella tradizione europea. Non c’è altro esempio di Paese messo in discussione in quanto tale. Non c’è altro esempio di Stato circondato da nemici che non ne riconoscono l’esistenza e da detrattori internazionali che lo mettono costantemente in discussione. Non c’è altro esempio di nazione criticata perché si difende da attacchi continui e ripetuti contro la sua popolazione e nonostante sia sempre pronta a deporre le armi, come ha già fatto, nel momento esatto in cui le autorità vicine smettano di voler spillare sangue ai «porci» e alle «scimmie» ebree.
Certo che è lecito criticare il governo di Israele, come quello di qualsiasi altro Paese. Certo che è giusto piangere le troppe vittime civili di un conflitto armato drammatico e infinito. Epperò quando si criticano le politiche russe o tedesche o siriane o iraniane o nordcoreane nessuno nega il diritto di russi, tedeschi, siriani, iraniani o nordcoreani a vivere serenamente in uno Stato, fianco a fianco con vicini rispettosi e pacifici. Nessuno vuole cancellare la Russia, la Germania, la Siria, l’Iran o la Corea del Nord dalla cartina geografica. Nessuno li chiama con disprezzo «entità» né definisce «razzista» con egida Onu il diritto alla loro esistenza.
Qual è dunque la differenza tra le critiche a questi e altri Paesi e quelle a Israele? Una soltanto: Israele è lo Stato degli ebrei. Come è possibile, inoltre, criticare il governo di Israele sempre, comunque e in ogni occasione, quando è di sinistra ma anche quando è di destra, quando è di unità nazionale e quando è di minoranza, quando cerca la pace con i vicini e quando non si fida degli interlocutori? Possibile che questo governo sia sempre criminale, ogni singolo giorno dell’anno dal 1948 a oggi? Che cosa nasconde la critica indistinta e imperitura al «governo di Israele» sia che lo guidi Begin sia che lo guidi Rabin, quando il leader è Sharon e quando lo è Peres, se al potere c’è Barak e anche se c’è Netanyahu?
Delle due l’una: o dietro questa fanatica e ingiustificata ossessione anti israeliana ci sono le ultime scorie ideologiche delle dottrine comuniste, antimperialiste e antiliberali oppure, appunto, è una critica radicata nell’antisemitismo. In entrambi i casi siamo in zona spazzatura della storia, e senza necessità di raccolta differenziata.
Ai firmatari degli appelli contro lo Stato ebraico evidentemente non importa che Hamas abbia come obiettivo principale distruggere Israele, instaurare la legge islamica e proclamare una Palestina Judenfrei. Non gli interessa che le guerre mediorientali di aggressione araba siano cominciate il giorno stesso della proclamazione all’Onu dello Stato di Israele. Non gli risulta che lo Stato palestinese non sia nato, contemporaneamente a quello israeliano come previsto dalla risoluzione Onu 181, per espressa scelta dei Paesi arabi che invece hanno preferito attaccare gli ebrei per provare a impedire la nascita di Israele. Non importa che da sessantasei anni Israele non faccia altro che difendersi e per questo sia diventato più che sospettoso dei suoi interlocutori e vieppiù arrogante, spietato e crudele con i nemici (sul trionfo e la tragedia di Israele leggete My Promised Land del giornalista pacifista israeliano di Haaretz Ari Shavit e scaricate la nuova serie tv della Bbc The Honorable Woman con Maggie Gyllenhaal). Ma che deve fare, Israele, farsi gentilmente annientare?
Gli israeliani, per i firmatari degli appelli, non si possono difendere del tutto, non devono esercitare la loro superiorità militare, forse dovrebbero morire un po’ di più in modo da pareggiare i conti con le vittime dell’altra parte. L’ebreo buono è sempre quello che muore, e non è nemmeno detto. In L’eterno antisemita, Henryk Broder cita uno psichiatra israeliano, Zvi Rex, che offre una spiegazione apparentemente paradossale e grottesca del rancore e del risentimento occidentale contro gli ebrei noto come "antisemitismo secondario": «I tedeschi non perdoneranno mai gli ebrei per Auschwitz». Qui i tedeschi non c’entrano niente, ma su certi intellettuali da appello meglio non scommettere".
Christian Rocca


giovedì 18 settembre 2014

sempre più vicini, sempre più lontani

Nell'inserto "La Lettura" del Corriere della Sera del 7 settembre, ho letto un articolo del filosofo Giovanni Reale che ha suscitato varie riflessioni: l'articolo si intitolava "Heidegger anti-web: le cose ci sfuggono se sono troppo vicine". Non conosco diversi pensatori che l'autore evoca per sostenere i suoi ragionamenti, sottolineare cioè non solo gli aspetti positivi, ma anche quelli negativi della rivoluzione informatica, alcune citazioni però mi hanno colpito. Quella per esempio del filosofo francese Paul Virilio secondo cui la rivoluzione dell'informatica costituirebbe una "tragedia della conoscenza", "una confusione babelica dei saperi individuali e collettivi" poiché, spiega Reale "l'automatizzazione delle conoscenze e dei saperi, infatti, si sostituisce alla diretta "interazione fra le cose e l'intelligenza degli uomini" e, quindi, elimina i linguaggi delle vive parole e delle cose, e provoca "una dimenticanza della realtà" nel suo spessore ontologico, sostituendola con il virtuale". Una dimenticanza non solo delle cose, ma anche degli altri uomini.  E Giovanni Reale cita poi Karl Jaspers che già nel lontano 1939 si interrogava su "...questo mondo della responsabilità anonima, che grazie alla propria arte di organizzazione ha poi portato a un mondo della reciproca estraneità. Chi è il vicino con cui viviamo?" Probabilmente banalizzando questi concetti, ho cercato di applicarli e verificarne la validità nella mia modesta realtà, quella cioè di una blogger che ogni giorno passa delle ore davanti al computer, uno scrivere solitario, un isolamento progressivo che mi porta delle gratificazioni ma che certo ha ridotto grandemente gli spazi della mia socialità. In qualche modo sono cambiata, non ho più lo stesso bisogno dell'incontro, cerco meno il confronto diretto con "l'altro" perché mi "autosoddisfo" attraverso la conversazione virtuale con lo schermo, in fondo l'occasione di dire in quella sede, a ruota libera, i miei pensieri senza un autentico confronto-riscontro umano, con il rischio reale di diventare un orso solitario che lancia parole nel vuoto, cosa che in parte sta già avvenendo. Attraverso un programma che mio figlio Francesco mi ha installato, posso poi verificare giornalmente in quanti mi hanno letto, quali articoli, da quali paesi; sono contenta, anonimi lettori servendosi probabilmente del traduttore automatico molto impreciso, ma comunque meglio che niente, o italiani che vivono all'estero, scelgono o capitano per caso sul mio blog dai paesi più lontani e più disparati, entro così nelle case del Bahrein e del Giappone, in Cina e persino in Uzbekistan, viaggio virtuale da un certo punto di vista assolutamente "straordinario". Però cosa ne so di dove vado a finire? Chi sono questi fantomatici lettori? Che scambio reale, umano, abbiamo insieme? Non consapevole dei risvolti filosofici, per la verità ci ho già pensato in passato a questa vicinanza sempre più lontana, ho anche esplicitato il desiderio di un "contatto" in un post di qualche tempo fa http://www.saranathan.it/2013/07/toc-toc-se-ci-sei-batti-un-colpo-per.html, ma è un'impresa impossibile,  una battaglia da Don Chisciotte contro i mulini a vento e non a caso Reale riporta nel suo articolo le parole di Hans-Georg Gadamer, che non conosco, ma che mi sembrano molto eloquenti: "Nel frattempo si comincia a parlare di una "computer age", nella convinzione non infondata che l'intero stile di vita fra gli uomini stia cambiando radicalmente. Quando un tocco di bottone rende raggiungibile il vicino, questo sprofonda in una lontananza irraggiungibile".  Allora che fa? Abbandono l'opportunità virtuale e per tornare alla realtà lascio perdere il blog e mi ributto nel confronto del tu per tu in carne ed ossa? Certo che no, ma facendo attenzione al consiglio finale, ovvio ma non scontato, con cui il filosofo termina il suo articolo: ..."che l'uomo impari a fare uso in "giusta misura" delle sue creazioni, e a non diventarne schiavo, come in molti casi sta succedendo".            

mercoledì 17 settembre 2014

Ronda, tappa del "Grand Tour" dei viaggiatori romantici

Attraversando campi coltivati, uliveti a mai finire, pueblos blancos, diga e lago artificiali, distese brulle e selvagge, arriviamo a Ronda, l'ultima tappa del nostro periplo andaluso.  Potrà sembrare che ho usato e abusato di troppi aggettivi qualificativi per descrivere questo viaggio,  forse è vero, ma risultano dall'attingere a tutto il bello che ci è stato offerto, e mi tocca dire che anche Ronda è stupenda come del resto tutte le altre città e i luoghi che abbiamo visitato. Alcuni amici mi hanno fatto sapere di aver particolarmente apprezzato le mie note andaluse, ne sono contenta, ma io non centro niente, tutto il merito spetta solo all'Andalusia!
In cima a un altipiano dell'entroterra spaccato dalla fenditura della gola di El Tajo, a più di 700 metri di altezza, si erge Ronda, una delle più antiche città spagnole, la cui storia inizia secoli prima dell'era volgare. La Ciudad, il centro storico, risale in gran parte al periodo della dominazione araba, quando la località era un importante centro culturale brulicante di moschee e palazzi. Ronda era una delle mete preferite degli scrittori romantici di fine '800, quelli che sulle orme di un Goethe, antesignano quanto a sete di conoscenza, si sono messi in cammino per il "Grand Tour", quel lungo viaggio attraverso l'Europa continentale  che poteva durare mesi e anche anni  di pochi fortunati per censo e cultura. E di Ronda parlano Washington Irving nei suoi "Racconti dell'Alhambra, Richard Ford, Georges Borrows.
E da qualunque parte si guardi, dal Puente Nuevo di fine XVIII° secolo che sovrasta la gola attraversata dal fiume Guadalevìn o dal Ponte Vecchio detto anche Ponte Arabo del 1500, gli scorci panoramici risultano sempre straordinari. Facilmente intuibile il fascino esercitato dalla cittadina sugli scrittori romantici che hanno un rapporto privilegiato con la natura nelle sue manifestazioni più estreme e ne attingono grande ispirazione.

La città vecchia è circondata dalle massicce mura di una fortezza con due porte di accesso: quella araba del XIII° secolo e la cinquecentesca porta di Carlo V°. All'interno della Ciudad, una volta ancora,  la pianta tipica della città araba con l'intricato dedalo di viuzze strette, mentre sono rinascimentali i palazzi delle potenti famiglie che sostennero Ferdinando il Cattolico  quando nel 1485 conquistò la città.

 Per gli appassionati dello spirito Ronda offre numerose chiese, fra cui in piazza la chiesa Santa Maria la Mayor sorta come al solito sulle fondamenta di una moschea; per gli "aficionados" di tauromachia, l'imperdibile arena di Ronda, inaugurata oltre 200 anni fa, fra le più rinomate di Spagna e teatro di corride memorabili.  Foto di Hemingway e toreador si sprecano ovunque.  
Ubicato in un luogo dal nome altisonante, la Casa Palacio de los Condes de la Conquista del 1700, visitiamo il Museo Lara, dal cognome del suo proprietario, collezionista praticamente di tutto dall'età di 10 anni. Forse esagerando, viene presentata come la collezione privata più importante di Spagna, ma più che a una esposizione museale ho pensato a una gigantesca caverna di Alì Babà in cui, sala per sala, senza fascino particolare tale è la quantità degli oggetti, vengono presentati: orologi, armi, strumenti musicali, carrozze, macchine da cucire, macchine da scrivere, macchine fotografiche, vecchie fotografie, vecchi film, strumenti di tortura del tempo dell'Inquisizione, erbe magiche e medicamentose fra cui spicca in primo piano "la mandragora"erba velenosa e allucinogena indispensabile nell'armamentario di chi esercita poteri magici e altro ancora. 
Bella la collezione di "habanicos", i ventagli. Una scheda spiega che si tratta di una tradizione millenaria, iniziata con quelli enormi di piume degli antichi egizi, di cui credo godessero solo il faraone e altri pochi eletti. In Cina invece era un piccolo oggetto personale di carattere più estetico che funzionale, fabbricato nei più diversi materiali, seta, carta dipinta, piume, canne di bambù. Ma è nel 600 dell'era volgare che un artigiano giapponese inventa il ventaglio pieghevole, sbarcato in Europa quasi mille anni più tardi e che usiamo ancora ai giorni nostri; in Spagna non ne parliamo, c'è una catena di negozi che vende solo ventagli, antica aria condizionata manuale.
Vale certo la pena di visitare un altro museo, quello municipale di Ronda, ovvero Palacio de Mondragòn, sintesi di più stili architettonici delle varie epoche. Al di là dei reperti archeologici esposti che risalgono fino al secondo millennio prima dell'era volgare, al di là di sculture di riti funerari romani e arabi, è la costruzione stessa, iniziata nel 1313 per Abomelic signore di Ronda, ad essere superba con i suoi cortili interni e le sue fontane e col suo giardino in cima a un dirupo che si apre sulla vallata. 

E poi, e poi, e poi, un'occhiata a quei timidi garofani su un davanzale, rossi come il sangue delle arene e le mantiglie, a quel rumeno che solitario suona melodie appassionate, a quelle parole scritte su un muro da un innamorato poeta. Per i bambini sono gli ultimi giorni di scuola, per noi il tempo di  dire arrivederci a  questa magica Andalusia!