giovedì 28 gennaio 2016

da Nizza fino a Bollywood

Cielo e terra, inizio e fine, luci e ombre, yin e yang, cigno bianco e cigno nero, la dualità della visione cosmica del mondo levantino è rispettata e una volta ancora il Museo delle Arti Asiatiche di Nizza è uno splendore dove ritornare con gioia perché mi ha incuriosito  il titolo dell'esposizione "Dal Nô a Mata Hari. 2000 anni di teatro in Asia" anche se scoprirò che la celebre danzatrice-spia con questa mostra centra proprio poco, è solo che con i suoi costumi e le sue leggiadre danze aveva incantato quell'incredibile viaggiatore e collezionista che è stato Emile Guimet, mecenate dell'omonimo straordinario museo delle arti dell'estremo oriente di  Parigi. Nel museo nizzardo, a parte la bellezza architettonica della costruzione di Kenzo Tange, un vero gioiello, colpisce e si assapora l'esiguo numero di opere esposte, una più bella dell'altra e valorizzate in modo esemplare. Mi si spiega che a differenza di Parigi dove l'immensa collezione era preesistente e l'edificio è stato costruito in seguito ad hoc per poterla contenere, a Nizza è avvenuto il contrario, è a partire dal luogo che si è venuta creando la costituzione e l'ambientazione della collezione permanente.     (http://www.saranathan.it/2011/04/nizza-le-musee-des-arts-asiatiques.html)



Non posso non accennare alla "Pierre de lettrés" perché troppo particolare e ignoravo cosa fosse. Nella raffinatissima antica cultura cinese, venivano chiamate "pietre dei letterati" delle rocce naturali collezionate per il godimento estetico e poste in giardino o nello studio di uomini di cultura, alti funzionari, mandarini. "Pietre dei letterati" perché suscettibili di evocare, nella contemplazione della loro bellezza, profondità di meditazione, libertà di immaginazione e componimenti poetici....Pierres de lettrés, accipicchia che raffinatezza!
Ma veniamo alla mostra attuale sul teatro. Nel nostro mondo all'ovest, a eccezione dell'antica Grecia, il teatrante, l'artista, sono stati considerati per secoli dei "diversi", dei mestieranti atipici non integrati nella società, gente magari da applaudire, ma da relegare ai margini. Leggo invece che in India enorme rispetto per questi "diversi", il teatro è sempre stato considerato di origine divina e per estrinsecare questa sua essenza l'arte teatrale deve associare recitazione, mimica e danza. Quella "catarsi" aristotelica che permetteva allo spettatore di identificarsi e quindi purificarsi attraverso l'immedesimazione nella tragedia scenica, in India è "il rasa", ovvero quel sentimento estetico suscitato dall'opera. 8 "Rasa" per sottolineare ogni diversa sfumatura individuale e universale dell'animo umano: l'amore, la collera, il coraggio, l'odio, la gioia, il dolore, lo stupore e il terrore, il "Rasa" sarà il diverso "succo" di ogni rappresentazione codificato in ogni aspetto dello spettacolo e particolarmente nei "mudra", il linguaggio dei gesti e delle posture assunte dagli attori.


maschere tailandesi

 Il teatro epico,  recitato sia da attori che da marionette o da ombre, si ispira fondamentalmente a due grandi epopee indiane,  il Ramayana e il Mahabharata e questo non solo in India, ma anche in Tailandia, in Cambogia, nelle varie tradizioni wayang (performances teatrali) dell'Indonesia, di Giava e di Bali. Misto di folklore, storia, religione, anche in Cina il teatro si organizza intorno ai suoi miti fondatori ed è a partire dal 19° secolo che assume la sua forma definitiva grazie all'Imperatore Cixi. Alla recitazione dell'attore si aggiungono canto, danza, mimo, musica, acrobazie, l'attore è veramente un artista completo dai tanti talenti proprio come nella nostra Commedia dell'Arte. La grande differenza con il nostro teatro è che nulla viene lasciato all'estro e all'inventiva   personale, peculiarità dell'artista occidentale, qui tutto è rigorosamente codificato, i costumi, le pettinature, i testi,  la recitazione. Proibito durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976) dalla moglie di Mao, era stato sostituito da lavori "realisti socialisti" e solo dopo l'arresto della "Banda dei quattro" nel '77  l'Opera di Pechino  è potuta ritornare agli antichi fasti della sua tradizione.



Ombre e marionette non rappresentano solo un semplice divertimento per bambini, ma un genere drammatico, storico o mitologico di assoluta rilevanza. Non articolate e giganti come in India o mobili e translucide come in Cina, le ombre sono una specificità del teatro asiatico. Giunto in Cina dall'India, risale all'XI° secolo la prima volta in cui viene menzionato il teatro delle ombre. In Indonesia e in Tailandia viso e gambe sono spesso montati di profilo mentre il dorso e il bacino appaiono di fronte. In Cambogia si creano grandi pannelli  con delle scene intere.

In Giappone due forme di teatro: il "Nô" e il "Kabuki". Temi e regole del "Nô" vengono fissati a partire dal XIV° secolo all'inizio dell'epoca Muromachi  da un certo Kan'ami e dal figlio Zeami. Con una dimensione estetica e spirituale della tecnica gestuale ci si ispira alle creazioni poetiche in voga all'epoca e le opere di Zeami formano ancora oggi l'essenziale del repertorio. Leggo che l'intensità drammatica è tale che durante le rappresentazioni  ci sono degli intermezzi comici per interrompere la tensione. Oltre ai movimenti dell'attore anche maschere e costumi contribuiscono a creare una atmosfera particolare, sia estetica che emotiva . Il "Kabuki" è invece una forma di teatro popolare il cui acronimo riassume le parole canto, danza e gioco di scena, le tre componenti che lo contraddistinguono. Creato dall'attrice e sacerdotessa Izumo no Okuni all'inizio dell'epoca Edo (1603-1868), è una forma di teatro che a partire dal 1629 è stato interpretato solo da uomini. Il kabuki offre un repertorio molto vasto, pièces storiche, di vita quotidiana, di danza. Assolutamente straordinari i kimoni d'Itchiku Kubota, che ha dedicato il suo estro di maestro tessitore al teatro. Incredibile il gioco di colori e l'energia che si sprigiona da questi due kimoni. Completando un decoro scenico minimalista, i costumi devono poter evocare, attraverso colori e motivi, le condizioni e le qualità dei personaggi che li portano, come una scenografia vivente che l'attore indossa e si porta dietro, i ghirigori ricamati sul tessuto evocheranno un sentiero, le foglie impresse, l'autunno, la delicatezza del disegno, un personaggio femminile, tutto vuole risultare evocazione simbolica.
kimono della serie "Univers" di Itchiku Kubota
Recitato, cantato, mimato, danzato o animato da ombre o marionette, il teatro in Asia è tutte queste cose contemporaneamente; le sue radici sono religiose, ma nei secoli si è adattato a un pubblico secolarizzato per divenire mero divertimento. Dai costumi del kathakali indiano alle ombre dell'Asia del sud-est passando per i vistosissimi costumi dell'Opera di Pechino e i sontuosi kimoni e maschere del "Nô", è tutto un mondo di divinità, spiriti, animali, personaggi che animano la scena e che sia teatro epico o teatro drammatico non manca comunque mai il carattere morale e didattico della rappresentazione dove il Bene e il Male si affrontano sempre in una visione dualistica dell'Universo. Con la maschera o col viso truccato e con i vestiti caratteristici di un certo personaggio, gli attori scompaiono dietro il ruolo che incarnano, scompaiono ancora di più dietro ombre e marionette. Se prima per le strade del subcontinente circolavano dei piccoli teatri di legno che lasciavano apparire illustrazioni mitologiche, poi a fiere e mercati hanno fatto la loro comparsa degli apparecchi ambulanti di cinema. Così il passo fino a Bollywood non è poi stato così difficile: il cinema indiano popolare riprende la stessa tradizione delle epopee del teatro, la lotta per esempio di Rama contro il demone Ravana è stato portata sugli schermi più di mille volte e anche il regista europeo Peter Brook non ha resistito al fascino del Mahabharata, con una adattazione teatrale prima e un film dopo (1989).
costume da principessa per il Mahabharata di Peter Brook.
All'ultimo piano del museo, un'altra esposizione per la gioia degli occhi. L'autore è l'artista Kinji Isobe e la mostra si intitola "Washi papier sublimé" Washi è il nome della carta tradizionale che viene prodotta nella regione Mino di questo artista contemporaneo e "sublimata" perché Isobe vi aggiunge altri materiali tipici dell'arte giapponese come l'inchiostro, il legno, la foglia d'oro, il succo di caco e ....la pittura acrilica, una sintesi dall'effetto straordinario, vedere per credere!
Kinji Isobe:  Dialogue de la vie, Fôret N° 1-11   11 panneaux- Papier japonais, acrylique, feuille d'or







































venerdì 22 gennaio 2016

riscoprire Vallauris

nelle tre foto sculture di Jacotte e Roger Capron
Ritorno a fare un giro domenicale a Vallauris dopo circa trent'anni e la sorpresa è grande: case restaurate, strade pulitissime, piazze e vie piene di sculture, verde curato e rigoglioso nelle aree cittadine. Ne avevo un ricordo vago e non particolarmente edificante, mi era sembrato all'epoca un paesotto scalcinato e caotico  del nostro sud e malgrado l' essere famoso per gli atelier di ceramica e la frequentazione di Picasso e tanti altri artisti, aveva la pessima fama del  più alto tasso di microcriminalità della regione, specialità locale "le vol à la portière", ti aprono la macchina mentre sei ferma a un semaforo e ti sfilano in un battibaleno la borsetta.  
Non conosco le attuali statistiche di ladri e malcapitati borseggiati, certo è però che in questa assolata domenica del gennaio 2016 la situazione sembra davvero cambiata, mi appare bellissima e non più anonima come un tempo quella via Clemenceau che attraversa la città con tutte le sue botteghe di ceramica ben allineate e curate, le piante sui davanzali, la chiesa bianca barocca che domina dal fondo della via, gli angeli che spuntano dai tetti. E come a Grottaglie in Puglia e a Santo Stefano di Camastra in Sicilia, l'inventiva artistica e la ceramica sono protagoniste, non solo con i forni e gli atelier d'arte, ma con le insegne delle strade, i pannelli dipinti dai bambini all'ingresso dell'asilo comunale, le sculture fatte con gli assemblage dei materiali più disparati.
Però attenzione, a Vallauris si ha l'impressione che non si muova foglia che Picasso non voglia. Già, questo gigante del XX° secolo ha vissuto e lavorato a Vallauris dal '48 al '55, nella piazza del paese ci organizzava persino le corride ed è onnipresente. Non basta il suo inconfondibile sguardo indagatore dipinto sui muri che tutto scruta e tiene sotto controllo, non bastano il suo "L'homme au mouton" donato alla città  del '43 in place de la Libérationi e sculture e ceramiche di altri artisti e artigiani che chiaramente si ispirano alla sua opera, non basta l'Atelier Madoura di Suzanne e Georges Ramié dove Picasso ha cominciato dal '47 a cimentarsi con la ceramica, c'è soprattutto il Château Musée con le sue collezioni e la cappella dipinta dall'illustre malaguegno. 
Picasso: La guerre et la Paix  (1952)
Il Château Musée di Vallauris, antico priorato dell'Abbazia di Lérins, comprende tre sezioni: 1- le due composizioni monumentali " La guerre et la Paix", testimonianza dell'impegno di Picasso per la pace dopo "Guernica" e "Massacro in Corea", poste una di fronte all'altra nella Cappella adiacente 2-il museo della ceramica e 3- il museo d'arte moderna Alberto Magnelli, pioniere dell'arte astratta. In realtà mi è stato concesso di fotografare solo il primo piano dove sfilano ceramiche veramente bellissime  di Picasso e dei grandi maestri di Vallauris. Da opere della fine del XIX° secolo agli inizi del XX° fino a pezzi recentissimi acquisiti dal museo grazie alla Biennale Internazionale della Ceramica istituita a Vallauris dal 1968.
Altrettanto bellissima la mostra "Résonances" nella Sala Eden  nella piazza accanto. L'esposizione presenta delle fotografie di Alice Blangero dei Balletti di Montecarlo con una selezione di ceramiche contemporanee del Museo della Ceramica. Attraverso le immagini della fotografa i ballerini, ripresi durante le prove, dietro le quinte e in scena, vengono visti come delle sculture viventi cui fanno eco, in una magica alchimia, le forme e le linee essenziali delle ceramiche. 
All'uscita di Vallauris ci saluta la scultura "La rebellissière" creata e offerta alla città da Jean Marais, non solo attore famoso, ma anche pittore e scultore, altro frequentatore abituale dei luoghi, ma fatta indigestione d'arte, ho preferito concentrarmi su un cocker in passeggino con la sua padrona.