sabato 20 ottobre 2007

Israele: un paese giovane

Eccomi a rehovot Ilan, nella periferia di Tel Aviv, da Miriam, che non vedo da 38 anni. Già, solo 38 anni; Miriam era la mia compagna di banco in prima media e grande amica fino ai 19 anni, poi, i casi della vita, ci eravamo perse di vista, sapevo che si era sposata con un ebreo romano e che era andata a vivere in Israele, ma null'altro. Pochi mesi fa avviene il miracolo, l'indirizzo e-mail datomi da una fortuita conoscenza comune e via, il filo si è riannodato. Per mesi computer a gogo per raccontarci i decenni passati e ora eccomi qui, per una settimana ospite da lei. Ha tre figlie stupende, la madre ancora in gambissima che l'ha raggiunta qualche anno dopo e la sua famiglia mi sembra offrire uno spaccato molto rappresentativo di una delle mille famiglie possibili in Israele. Fa aliah (venire a vivere in Israele) una trentina d'anni fa con Emilio; studiano la lingua, cercano casa e lavoro, si rimboccano le maniche insomma, ricominciano tutto da zero, come al solito, la mia tribù ne ha un'abitudine millenaria. Emilio in particolare, questo è stato l'argomento principale delle nostre bellissime chiacchierate mattutine mentre Miriam era al lavoro (Emilio ti ringrazio), sente che fare l'ebreo in diaspora gli sta stretto perché contraddittorio: come la mettiamo con il solito tormentone dell'identità, è religione? è tradizione? Fedeltà ad una storia? Solo dovere di memoria o anche progettualità futura? Un casino, il solito casino che fa riempire pagine e pagine da sempre ad intellettuali di tutti i tipi quando si domandano che cos'è un ebreo. Allora Emilio convince Miriam che se verranno in Israele tutto sarà molto più semplice, non certo per l'organizzazione di vita o la tranquillità politica, ma per i mille dubbi interiori, per una ricerca di coerenza fra pensieri ed azione. Qualunque tipo di ebreo sarai, buono o cattivo, religioso o no, impegnato o no, sei nel tuo paese, sei a casa, sulla tua terra e fra la tua gente e contribuirai secondo le tue possibilità alla crescita comune. Non so se Emilio ha trovato risposta a tutte le sue domande, forse è preoccupato perché l'attuale realtà israeliana non ha esaudito tutti i sogni messi in valigia al momento della partenza dall'Italia, ma certamente non si interroga più sulla sua identità come la sottoscritta, lui ha trovato il suo posto . Daniela, la primogenita vive nel Moshav Shadmot-Dvora in Galilea con marito e due figli.

E' sposata con Shanì, di origine russa e con idee di sinistra. La seconda figlia Gaia fa l'informatica, vive a Tel Aviv con il marito Dudi, di origine irachena ed idee di destra; Tami, la più giovane è appena tornata da un grande viaggio in India come fanno tutti i giovani israeliani alla fine del servizio militare, lavoricchia ed ha iniziato gli studi universitari, il suo ragazzo non ricordo quale origine abbia, ma la sua famiglia è molto religiosa, giusto per aggiungere un'altra variante nel mish mash familiare come direbbe mia madre. Non racconto della gioia di ritrovare Miriam e delle nostre chiacchierate, è un fatto privato, ma ia sua è proprio una bella famiglia e si vogliono molto bene, vivono in modo semplice ed essenziale, alla israeliana e tengono sempre la porta aperta, della casa e del cuore.

Tel-Aviv mi piace molto, ci potrei abitare, è informale, curiosa, cosmopolita, vivace,

diverse manifestazioni culturali dovunque, anche a cielo aperto, le parti vecchie con stradine e viali alberati, le case tipiche su piloti col giardino o le macchine sotto, le parti nuove, con grattacieli mozzafiato, università modernissime, musei ed auditori firmati dagli architetti più prestigiosi. Ho subito le mie abitudini: al mattino in pigiama davanti al caffè chiaccherata metafisica con Emilio, poi in giro con lui , parchi vari, la stupenda ( dal punto di vista architettonico) università religiosa di Bar Ilan attaccata a casa loro,

(quella dove ha studiato il giovane Igal Amir, l'assassino di Rabin ora in prigione e diventato papà, povero bambino che nasce con un'eredità così pesante), l'auditorium di Liebeskind,

con le finestre a tagli e fessure come il museo dell'Olocausto a Berlino oppure da sola in autobus a Tel Aviv fino alle 4 del pomeriggio quando Miriam finito il lavoro mi raggiunge e mi fa scoprire angoli sconosciuti della città. Visitiamo nell'arco della settimana le belle vie del centro, la Gordon, la Rothschild con le stupende dimore Bauhaus, il quartiere Neve Tzedek, prima vecchio e dissestato ora restaurato nel rispetto della sua storia di centro originario della città e tornato di moda con negozietti, gallerie d'arte e ristoranti, il museo di arte moderna

in una zona tutta rifatta e con collezioni importanti, il grande mercato Karmel. Il primo fine settimana nel moshav di Daniela, accanto un villaggio circasso (popolazione caucasica, in Israele non manca proprio nessuno), il secondo sempre in Galilea a En Hod, villaggio tutto artistico, dove persino la pattumiera lo è

e dove anche un tristissimo rifugio antibombe si riempie di colore

Qui hanno vissuto e vivono tuttora artisti provenienti da tutto il mondo, fra cui il grande cubista Marcel Janko; dimore particolari,

atelier d'arte e sculture dovunque
e poi Zikron, altro villaggetto grazioso, ma molto turistico.

Passo anche un giorno con Tami e Mino

( cugini da parte di mia madre) che mi portano a pranzare sul porto di Herzlia; stessa impressione negativa che ad Eilat, supercostruito e superchic, ma un'americanata pazzesca, niente a che vedere con la bellezza e la semplicità del nuovo lungomare di Tel Aviv, una lunghissima lingua di legno che accompagna il mare.

Parole chiave del mio viaggio: deserto, filo spinato e tubi d'irrigazione, tensione ideale, Israele oggi e domani.
Il deserto è una grande emozione, al di là delle bellezze naturali ho visto le più svariate forme di aggregazione, chi ci và per trasformarlo in giardino, chi per trovare se stesso, chi per scappare dalla civiltà, chi per confrontarsi con l'assoluto. A tutti il deserto regala generosamente la possibilità di tentare il suo sogno.
Dovunque filo spinato e tubi d'irrigazione; il primo sottolinea dolorosamente la necessità di perimetrare e proteggere territori, case, installazioni, i secondi testimoniano la volontà di andare comunque e sempre avanti, accettando la sfida di una terra difficile.
Nella vecchia Europa, personalmente non ho visto un ideale collettivo in azione, ho solo assistito al tramonto di quelli del passato. Nelle nostre manifestazioni si gridano molti slogan, ma poi rientrati a casa sul tavolo in cucina aspettano gli spaghetti caldi della mamma. Nel mio breve viaggio ho visto concretamente tanti giovani con le maniche rimboccate; non so se nella giusta direzione e se ce la faranno, ma almeno li ho visti.
Israele è un paese giovane, dalle grandi potenzialità, questo si sente. Le contraddizioni e le difficoltà sono molte, questo si vede. Qual è l'obbiettivo? Se è diventare un paese "normale"come gli altri, copia del modello occidentale con l'individualismo sfrenato, l' economia come principale parametro di valutazione, la corruzione, l'alto tasso di litigiosità politica, l'omogeneizzazione sociale, l'incapacità di discutere insieme un possibile modello di sviluppo futuro, non c'è problema, Israele purtroppo ci sta riuscendo perfettamente; se invece l'obiettivo è quello di diventare altro, delle idee nuove per vivere in pace con i vicini e con la difficile terra che li ospita tutti, bisogna forse ritrovare con coraggio e fantasia quella carica ideale, quel bagaglio di sogni che ne hanno permesso la nascita 60 anni fa.

venerdì 19 ottobre 2007

Neghev, kibbutz e Eilat


L'indomani lasciamo il deserto di Giudea, il Neghev ci aspetta. Il paesaggio cambia, abbandoniamo i canyon e le rocce frastagliate, le montagne diventano più regolari, i colori di terra e pietre si accavallano fra bianchi, rossi e neri, lasciamo l'Arahvà, la strada del deserto e ci inoltriamo nel Ramat Haneghev, l'altipiano del Neghev, il verde comincia a rarefarsi, fa capolino solo dove ci sono i Waadi . Arriviamo a Sde Boker, il kibbutz di Ben Gurion, artefice e mitico primo ministro del sorgente nuovo stato di Israele. Oasi stupenda, casette di legno dipinto di sapore coloniale, prato verdissimo praticamente londinese,

si visita la sua casa, piena di foto, di libri e di documenti, la tomba sua e della moglie,

su cui leggo questa incisione : "The State of Israel, to exist, must go south"; non ne capisco subito il significato profondo, ma mi apparirà chiaro in seguito, strada facendo. Quello di Ben Gurion è rimasto, fra i pochissimi, un autentico kibbutz comunitario; ce ne spiega forse le ragioni un membro che passeggia con noi per i viali: certamente da un lato la sua portata storica e simbolica, ma anche il fatto che non si volle alle sue origini accettare le dure imposizioni del collettivismo spinto, il nucleo familiare fu da subito preservato, tanto è vero che Sde Boker non fu considerato all'epoca un vero kibbutz, beh adesso lui lo è ancora, e gli altri no.
Verso sera arriviamo a Shivta, l'antica città di Subotea, fondata forse nell'ultimo secolo prima di Cristo dai nabatei, tribù di ebrei convertitasi al cristianesimo, con Petra come capitale. Per i carovanieri Shivta, particolarmente in epoca bizantina, era una tappa sulla strada dell'incenso, Jemen, Eilat, Petra, Gaza per mare o per terra, alcune delle altre; è stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'Unesco. Il silenzio intorno è quasi irreale, vicino alle rovine c'è una casa di pietre,
è lì che quel matto di mio cugino ha deciso di dormire per farmi scoprire l'emozione del deserto, quello reale, sono stata accontentata. Ci abitano Ayala ed Ami, una giovane coppia ed i loro tre figli. Sono venuti a vivere qua 12 anni fa, hanno acquistato la costruzione rudimentale che era servita da casa agli operai durante il recupero delle rovine archeologiche di Shivta e da allora non fanno che migliorare e ristrutturare, campano affittando le due stanze che abbiamo preso e servendo un pranzo ai turisti dell'antica città anabatea.

Ayala e Amir volevano fare una scelta di vita diversa, estrema, per 6 anni hanno vissuto qui senza acqua in casa, i figli sono venuti dopo, insieme all'acqua. Sono sereni, hanno imparato a conoscere il silenzio e l'isolamento e non ne hanno paura, i bambini giocano liberamente, il centro più vicino è a Nizana, a una trentina di chilometri; penso una prima volta alle parole di Ben Gurion. Al tramonto ci sediamo nel patio, c'è lo stupore dello spettacolo assoluto e sterminato intorno, poi troveremo una stupenda tavola imbandita con pita calda, insalata, olive, formaggio, pollo, riso e Ayala che racconta il suo percorso, forse la prossima volta la troveremo con i capelli raccolti e coperti e le calze scure sulle gambe, una sua svolta religiosa mi è sembrata imminente.

L'indomani con Amir andiamo su una vecchia jeep tutto il giorno in giro per il deserto. Naturalmente il deserto è deserto solo per quelli che non conoscono e non sanno vedere, ma per lui, che lo conosce e lo ama, tutto parla, anche la cacca delle capre.

Il paesaggio è vario, dune rosse di sabbia finissima,

waadi bianchi e poi sassi bianchi e neri e terra. Alla nostra destra il confine ben visibile con l'Egitto, il Sinai: improvvisamente su questa immensa superficie così dura ed ostica appare una lunga fila di colonne, è una scultura dell'artista Dani Karavan, l'ho interpretata come un ponte fra due mondi, i politici mettono i confini con pali e filo spinato, gli artisti sognano, e menomale!

Arriviamo al nuovo moshav di Ber Milka. Il moshav, altra tipica realtà israeliana, è all'origine una comunità agricola; ce ne sono di vari tipi in giro per Israele, da quelli che non condividono praticamente nulla, tutto di proprietà privata, ogni casa diversa dalle altre, semplici agglomerati residenziali nel verde insomma, a quelli che condividono i mezzi di produzione agricoli, a quelli metà kibbutz metà moshav. Qui, a Ber Milka per il momento non c'è quasi nulla solo una decina di container che fungono da casa; ci vengono incontro due giovani, due fratelli, sorridenti, lo sguardo esaltato, uno con due bambini piccolissimi in braccio, mamma che coraggio, il pediatra dov'è? Sono degli ebrei messianici, mi dicono, pensano che il messia sia stato Cristo. Mentre ci raccontano del loro sogno fra mille difficoltà di costruire qui un posto bello come Sde Boker e del governo che non li aiuta come loro speravano, avanza con fatica un vecchio camion

tutto caracollante pieno di vecchi mobili, pentole, materassi e carabattole di ogni genere; è un altro giovane, loro amico, che si è deciso al grande passo di venire a vivere qui, si abbracciano, le scelte comuni uniscono. Non so perché ma mi vengono le lacrime agli occhi, mi commuovo. Per una disincantata europea un po' "blasée" come dicono i francesi, parole come "ideale, pioniere", sono reperti archeologici, parole morte da resuscitare solo sul vocabolario, qui invece diventano vere e reali, ancora attuali, questi matti credono in qualcosa, hanno un sogno, sono disposti a rimboccarsi le maniche per trasformare questo deserto che sta loro intorno in un futuro giardino. Una volta ancora ripenso alle parole di Ben Gurion. Nel cielo spunta uno Zeppelin, controlla tutto perché siamo vicini alla centrale nucleare israeliana, la intravediamo da lontano, un cartello dice Mahané Kamus, campo segretissimo, il solito spirito autoironico della mia tribù.

Capitiamo poi in un altro moshav, insediamento ventennale, Kadesh Barnea, tutt'altro genere: belle villette e giardini a profusione. Ci vive una comunità che definirei hyppie. Producono formaggio ed altri prodotti alimentari biologici, le parti comuni sono malconce e trasandate, ma le case no, costruite ciascuna ai confini del deserto,

sembrano tutte voler essere costantemente a contatto con l'assoluto, l'occhio si perde in un orizzonte senza fine avvolto nel suo mistero; dei bambini lerci da morire giocano, raccontano in francese che dopo l'India i genitori sono venuti a vivere qui. L'indomani mattina ci congediamo con calore da Ayala e Amir e partiamo per Beer Sheva, l'unica grande città nel deserto, alla stazione

lasceremo Agar che deve tornare prima a Londra.

Beer Sheva è brutta, povera e modernissima, costruita ex-nihilo, ci abitano gli attuali israeliani di serie b, russi, marocchini e falasha, vedo anche molte donne druse.

Da sola ormai con Eldad iniziamo la discesa verso Eilat.

Prima a Mizpe Ramon, 1200 metri di altezza, davanti al più grande cratere non vulcanico del mondo. Una catena montagnosa spettacolare si erge come un immenso anfiteatro, mi fa pensare ai westeroni di Sergio Leone, all'Australia o al sud degli States visti solo al cinema, uno sballo, magari spunterà un gringo o Geronimo. Attraversiamo il cratere, la molteplicità dei colori ci segue sempre. Improvvisamente il cartello "Ashram in the desert", ci fa deviare. Tante tende, ognuna con grandi cartelli che indicano funzioni diverse per i vari momenti collettivi: quella per ascoltare ( Eldad ed io non ascoltiamo un bel niente e facciamo una pipi nature, beh davanti al deserto è un'altra cosa), quella per toccare, quella della rinascita (sul cartello c'è dipinto un bèbè col cordone ombelicale), il tempio del fumo (ehm ehm), la Buddhahall con davanti un Buddha di terracotta che francamente sembra un mostro di Halloween,

l'Heder Manhim ovvero la scuola dei maestri. Nella tenda bar ci sono un sacco di giovani, nessuno ci guarda, chissà, forse hanno già raggiunto il nirvana; la cosa che mi ha colpito di più è un cartello appeso su un albero con su scritto "parlami", all'albero si intende. Riprendiamo la strada per Eilat e finalmente verso il tramonto ci arriviamo. Che peccato, Eilat fa schifo, un'americanata pazzesca, albergoni mostruosi tipo Las Vegas spuntati disordinatamente come funghi dopo il temporale, tranne una scultura straordinaria nella hall di un albergo.

Un peccato perché la strada per arrivarci ed il sito sono semplicemente meravigliosi: alla sinistra tutta la catena giordana dei monti Adom (rossi) e rossi sono col sole che li inonda, ai piedi Aquaba, estesa ed illuminatissima, lungo la spiaggia un no-mans land che funge da frontiera fra Israele e la Giordania. Alla destra il confine con l'Egitto e la città egiziana di Taba, dove c'è appena stato un attentato. Racconto volentieri del bagno in mare e dell'aperitivo piedi nell'acqua sorseggiando nana, granita di limone e menta, momento divino, no comment sui 30 sushi ingurgitati da Eldad a cena sulla chiatta galleggiante Pago Pago con la scusa che erano tutti diversi e bisognava assaggiarli. Il giorno dopo la fine del mondo, tra le cose più belle mai viste in vita mia: a mezz'ora da Eilat il parco naturale di Timna, le antiche miniere di rame dei faraoni fino a Ramses V e di re Salomone.

Il silenzio è assoluto ed austero, la natura offre tutto il mistero della sua bellezza e colpisce perché viene da molto lontano nel tempo, il 14° secolo prima della nostra era: incredibili formazioni rocciose, incisioni rupestri, un fungo immenso naturalmente scolpito nella sabbia rossa, i cosiddetti Pilastri di re Salomone creatisi con l'erosione naturale e poi i colori incredibili di tutte queste formazioni, la terra rossa ferrosa, il verde del rame ossidato, il nero granito e bianco e giallo. Stupendo, stupendo, stupendo. Venerdì mattina inizia il ritorno verso Tel Aviv, sulla strada 90, lungo la Aravà. Ci fermiamo al kibbutz Yotvata con sosta autostradale, famoso per la sua produzione casearia e la coltivazione di datteri; sorpresa, la sala del ristorante è arredata con decine di sfere luminose indovina di chi?? Interessantissimo un altro kibbutz visitato dopo, Lotan, un ecosistema concepito e realizzato nel rispetto totale di tutti i principi di salvaguardia della natura e del risparmio delle risorse: case di terre, grotte di moderna architettura, riciclo degli scarti, attenzione ai materiali, tutti naturali, un prototipo di perfezione ambientale per il futuro.


Chissà, se è tramontato l'ideale del kibbutz, comunque positivo in quel momento storico per tutto ciò che ha costruito e significato, questa potrebbe essere la nuova sfida israeliana, la proposta di una terra abitabile diversamente, nel rispetto dell'uomo e dell'ambiente. Arriviamo a Tel Aviv di sera, mio cugino si libera finalmente di me, grazie Eldad,

sei stato una guida favolosa; mi ritrovo a rehovot Ilan, nella periferia di Tel Aviv, da Miriam, che non vedo da "solo" 38 anni.


giovedì 18 ottobre 2007

Shalom Haver !

L'incontro con Israele mi fa pensare, ogni volta che ci torno, a quei matrimoni concordati per corrispondenza dei nostri emigrati italiani di inizio secolo per le Americhe o la lontana Australia. Ci si scambia qualche fotografia, qualche letterina stentata con poche spicciole informazioni e poi via si parte, il matrimonio organizzato subito all'arrivo con una persona in realtà sconosciuta per permettere l'ingresso nel paese e che diventerà la compagna di una vita. Per Israele è uguale; leggo, m'informo, seguo attraverso la stampa le notizie politiche ed i dibattiti che animano la società sempre in subbuglio, ma in realtà non so niente, Israele è per me, e forse per molti ebrei della diaspora, una moglie sconosciuta da sposare "comunque ed a priori", una moglie che mi sorprende ogni volta che vado a trovarla. Ma procediamo con ordine.
All'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv subito la prima sorpresa: chiedo al controllo passaporti di mettermi il visto su un foglietto volante perché in molti paesi arabi non lo accettano e poi mi tocca cambiare passaporto: lo zelante impiegato armeggia col telefono per 15 minuti e poi mi dice che no, io sono israeliana d'ufficio, perché ci sono nata e quindi non ho diritto al foglietto. Anzi, cosa aspetto a rivolgermi all'ambasciata per avere la doppia nazionalità e doppio passaporto, oppure fare le pratiche burocratiche per depennarmi? Meno male che fare il militare non mi tocca comunque più. Fuori, caldo a trenta gradi, io ridicola con la giacca a vento milanese, mi aspetta il mio adorato cugino Eldad con la moglie Agar, londinesi da 18 anni, ma tre volte all'anno a casa per rivedere la famiglia. Subito sulla strada per il nord, nella valle Jeseel, fra Bassa Galilea e Samaria, cuore dello spirito kibbuzzistico ( neologismo?) degli anni ruggenti, qui più dell'80 % degli esistenti, per lasciare Agar dalla madre, a En Dor, il kibbutz dov'è nata. Traversiamo la periferia di Gerusalemme e poi il deserto di Giudea con paesaggi stupendi attraverso la Westbank, (gli israeliani tendono a non farlo, ma il momento è abbastanza tranquillo e Eldad è sempre un coraggioso). Subito mille spiegazioni che ho già dimenticato, ma i controlli ai vari posti di blocco, il muro che si snoda come un serpente a varie altezze e filo spinato a volontà, dovunque, quelli me li ricordo bene.
Ceniamo nel kibbutz, dalla madre di Agar, la Signora Ofer, esemplare autentico in via di estinzione di una generazione di pionieri che ha creduto in Israele e nell'ideale socialista della vita comunitaria, costruita dal nulla con lacrime e sangue per dirla alla Churchill. Casa piccola e modesta la sua, piena di libri, di vecchie cose, foto di famiglia e del posto, momenti di vita e di lavoro comunitari, in Europa la considereremmo la sistemazione provvisoria per una famiglia di terremotati, lei ci ha passato una vita e ne è molto fiera.

Sul tavolo in cucina un brodo di verdure con fagioli , cetrioli agrodolci, insalata di pomidoro e cetrioli, una mousse di sardine come una volta faceva la mia mamma, una specie di salame, vari tipi di formaggi bianchi, favoloso pane nero. La signora Ofer con il marito è venuta qui nel '45, ha scritto un libro sulla sua esperienza, peccato non tradotto, è stata una dei pionieri fondatori, un'idealista pura e dura, nel kibbutz ha sempre fatto l'insegnante, adesso organizza corsi di cultura ebraica per i nuovi arrivati ( soprattutto Olim che vengono dalla Russia) . Agar ha un ricordo terribile dei suoi primi vent'anni passati lì, e come lei pare che una generazione intera sia stata segnata in negativo dall'utopia fattasi realtà. Il nucleo familiare praticamente non esisteva, i bambini vivevano fra loro, vedevano i genitori solo un'ora e mezzo al giorno, i pasti sempre tutti insieme, tutto sempre collettivo, niente le apparteneva, non un giocattolo del cuore, manco le mutande o una maglietta , tutto sempre di tutti e quindi di nessuno, ridistribuito ogni giorno secondo i bisogni. Se si pensa al deserto diventato oasi di verde, alberi rigogliosi una volta impensabili ( di queste realtà ce ne sono all'incirca 250 fra il sud ed il nord), se si pensa a questo villaggio spuntato mattone dopo mattone su terra sabbia e roccia dove c'è ora ogni servizio, dal medico alla scuola ai negozi alla fabbrica, tutte le infrastrutture necessarie, è semplicemente straordinario e profondamente commovente. Solo la tensione ideale unita a tenacia e sacrificio immenso hanno permesso questo miracolo, ma nel tempo l'utopia ha rivelato anche tutti i suoi limiti e le sue ombre, l'ideale si è svuotato della sua carica, forse perché non teneva abbastanza conto dei bisogni degli uomini; ora il kibbutz in quanto tale non esiste praticamente più, salvo pochissime eccezioni: tutte le case sono diventate di proprietà, chi può si allarga, gli abitanti sono dei salariati, molti lavorano fuori, lungo i viali a volte la gente non si saluta nemmeno, tanti giovani se ne sono andati, quelli che vengono è perché la casa costa di meno che in città e si sta in mezzo al verde. Rimane per chi vuole il pasto comune in mensa a mezzogiorno, le feste celebrate insieme, i servizi per la collettività che vanno comunque pagati. La Signora Ofer ed Agar sono le due facce della medaglia, passato e presente, doloroso per la madre riconoscere che l'attuale realtà ha smarrito per strada i suoi valori costitutivi, difficile rendersi conto che l'ideale deve essere al servizio dell'uomo e non viceversa. Però così forte e dura, sicura di ciò in cui ha creduto, mi è proprio piaciuta ed incute rispetto. Sulla sua porta di casa c'è scritto:

Shalom haver! Haver, ani socher: pace compagno ed amico! Amico, io ricorderò. Sono le parole di Clinton al funerale di Rabin. Anche ad 83 anni la Signora Ofer non rinuncia alla sua passione militante.
Dopo cena, via per Gerusalemme, ospiti da Dorit, la sorella di Eldad, buonissima, dolcissima ed incasinatissima. Sta a Pizgat Sehev, fuori le mura, uno dei quartieri sorti intorno alla cintura della città. Gerusalemme intra ed extra muros è forse l'unico posto in Israele, insieme alla vecchia Tel Aviv a dare l'impressione di un piano regolatore. Le costruzioni seguono un progetto architettonico coerente ed omogeneo e sono tutte in pietra ocra, quella che il terreno offre, già questo attribuisce alla città un fascino tutto particolare. Visitiamo lo stupendo mercato di Mahané Jeudà,
cuore pulsante della Gerusalemme ebraica fuori le mura, il famoso istituto d'arte Bezalel
e poi due vecchi quartieri adiacenti al mercato, uno sepharad e quello aschkenaz; le diverse architetture testimoniano chiaramente di mentalità e percorsi diversi. Quello sefardita è caratterizzato da singole villette individuali, piante e fiori spuntate disordinatamente qua e là, una fontanella in mezzo alle piazzette, mondo individuale che si apre verso l'esterno; il quartiere aschkenazita è proprio tutto il contrario: realtà chiusa all'esterno, ma aperta all'interno su immense corti comuni dove affacciano case di ringhiere, come le nostre di una volta.
Appartamenti minuscoli, appiccicati gli uni agli altri, poveri, sgarrupati, lunga fila di indumenti neri stesi ad asciugare al sole in cortile,
è la biancheria dei religiosi ortodossi, una vita intera spesa solo studiando, studiando ed ancora studiando, bambini pallidissimi che giocano, l'imprinting della vita del ghetto di un'improbabile Polonia che non c'è più; quella Polonia è finita in fumo e non in senso metaforico. Lì sembra che il tempo si sia fermato, subito fuori pulsa a mille allora, caotico e febbrile. L'indomani entriamo dalla porta di Damasco, quella del quartiere arabo, e giriamo per la città vecchia. Porta di Damasco, nome mitico, evocatore di secoli e secoli di storia, adesso le millenarie pietre d'ingresso alla città sono un immenso shuk a cielo aperto, fungono da supporto per decine di modelli di scarpe che fanno bella mostra di sé, paccottiglia orribile con la Cina vicina. Grande brulicare di vita, dolci stupendi da 5000 calorie in esposizione,
molta sporcizia, molti turisti, molti colori, molti odori, ci si sente in oriente.
In un postaccio Eldad mi fa mangiare un humus stupendo, la pita calda vi affonda dentro che è un piacere, mio cugino di mangiare se ne intende e non sbaglia quasi mai. La città vecchia è sempre bellissima con i suoi dedali di strade,
con i suoi tre luoghi sacri, la Spianata del Tempio con la Moschea, il Muro del Pianto ed il Santo Sepolcro che fungono da spartiacque delle diverse realtà. Questa volta non ho colto nell'aria quella spiritualità che in passato mi sembrava aleggiare sulla città, condensata sinergicamente dalla fede dei fedeli delle tre religioni. Chissà, forse ero io meno recettiva o forse è proprio vero che di spirito comunitario non ce n'è proprio, ognuno tira l'acqua al suo mulino; è tutta una divisione, un sottolineare con unghie e con denti il proprio pezzetto di territorio e la propria diversità, primo simbolo esemplificativo in tal senso proprio il Santo Sepolcro con le sue varie realtà cristiane così drasticamente delineate e difese. Camminando per il quartiere arabo, si vedono a volte dei tetti e dei terrazzi completamente circondati da filo spinato, con la bandiera israeliana che svetta, come delle enclavi ebraiche in territorio arabo.
Più che luogo per risiedere, sembrano postazioni in assetto di guerra, mi viene da pensare, sconcertante. Eldad mi spiega che sono ricchi ortodossi americani che a suon di dollaroni tentano di comprare a poco a poco agli arabi le loro proprietà a Gerusalemme; chi vende, vissuto naturalmente come un traditore dalla comunità palestinese-israeliana, lo fa in gran segreto e poi scompare.
Non commento. Mi sono detta, e l'ho pensato più volte durante il mio viaggio, che non ho alcuna competenza per esprimere giudizi benpensanti stando comoda ed al sicuro a bere il thè con i biscottini all'estero; io non li mando i miei figli a scuola sull'autobus senza sapere se torneranno a casa vivi o morti. Quella di Israele è una realtà talmente difficile e complessa che solo chi ci vive e ne vive tutti i risvolti, può dire la sua, magari sbagliata, ma ne ha sufficiente esperienza.
Domenica mattina si riparte con Eldad per la Galilea
a recuperare Agar, un'occhiatina al parco naturale Belvoir e poi via per il sud, finalmente. ..., strade selvatiche e solitarie, un deserto che non lo è perché cespugli bassi ma robusti si affacciano ovunque, il Waadi (il canyon del letto del fiume quando miracolosamente piove) Dargot regala degli scorci da mozzare il fiato. Prima tappa il mar Morto. Mega albergo design con Spa, non a caso siamo nella valle di Sodoma: facciamo tutte le cose dei viziati turisti europei, il bagno nel Mar Morto, massaggio con musica soffusa, acquisto creme con i Sali del mar Morto.