lunedì 12 maggio 2008

New York


Lunedì mattina siamo in partenza per New York sul mitico Grayhound: ricordo da giovane le bellissime trasmissioni alla televisione di Piero Mazzarella che su questa linea di autobus ci aveva fatto sognare e attraversare l’America viaggiando coast to coast. New York è New York, come riassumere meglio la vitalità, il fermento della grande mela. Appena arrivati alla stazione

ci si sente investire in pieno dal pulsare di questa metropoli che corre a mille all’ora a tutte le ore del giorno e della notte, ma che consente pure pause di assoluto estraneamento.

Vecchio albergo molto malconcio e scalcagnato, ma centralissimo, a midtown, di fronte al Madison Square Garden, dove da bambina con papà guardavo alla tele i terribili incontri mondiali di box e dalla finestra della nostra camera da letto al quindicesimo piano la vista solitaria e maestosa dell’Empire State Building,

chi se ne frega dei muri scrostati con una vista mozzafiato così. Di questa metropoli meravigliosa e terribile

non racconterò quello che già tutti sanno o hanno visto, mi limiterò a soggettive annotazioni.

Prima di tutto la sfiga di aver visitato il Guggenheim, costruzione-capolavoro di Wright, senza vedere la collezione permanente perché il museo era in lavori di restauro, seconda sfiga di non aver visto tutti gli Eduard Hopper che adoro al Whitney perché il museo interamente dedicato all’arte americana apriva proprio quella mattina alla biennale dell’arte contemporanea per la gioia di Camille; video e foto sulla tortura, sul ciclone Katerina a New Orleans, installazioni concettuali per me misteriose e temi sociali sembrano essere le preoccupazioni creative degli artisti attuali. Interessantissimo a Chelsea l’Art Gallery District,

nella ventunesima e ventiduesima strada a cavallo con la decima; sulle opere ho già espresso le mie difficoltà, ma gli spazi, uno dopo l’altro in fila indiana, immensi loft bianchi dove qualunque installazione è possibile, sono veramente incredibili.

Lelong, Yvon Lambert, Sonnabend, Wildenstein, D’Amelio, i nomi mitici dei galleristi d’America e d’oltreoceano sono tutti concentrati lì ed offrono le loro scorribande artistiche contemporanee.

Alla sera, dulcis in fondo della nostra giornata dedicata all’arte ceniamo al Greenwich Village da Florent, ristorante supertrandy del figlio dello scultore francese Morellet. Il luogo a prima vista sembra molto disadorno ed anonimo, ma è l’originalità dei commensali a stabilirne tono e prestigio. Un pomeriggio inoltrato sono sulla V strada in autobus: sto andando verso Harlem alla Columbia University

per visitare il mio amatissimo nipote Marco

che sta facendo lì un dottorato di filosofia e la sua prestigiosa università; alla fermata, una ragazza in carrozzella aspetta. Il conducente si ferma, fa più manovre di parcheggio e finalmente riesce a regolare il predellino dell’autobus all’altezza della carrozzella, la ragazza sale; saranno passati grossomodo venti minuti, nessuno si è spazientito, nessuno si è meravigliato, nessuno ha guardato, tranne Camille e me, situazione assolutamente normale. Altro flash: sono in un grande negozio che si chiama Old Navy, mi trovo alla cassa con due golfini in mano giusto per godere anch’io del famigerato shopping. Giornata speciale di sconti, pagando mi regalano un buono da 10 dollari per un prossimo acquisto; partirò l’indomani, per me non è sfruttabile. Osservo la coda e scelgo una signora asiatica con bambino in braccio dalla faccia simpatica. Col mio improbabile inglese dico: – signora, domani parto, posso darle questo buono da 10 dollari? Mi guarda con aria superdiffidente- a quanto me lo vende? – niente, glielo regalo-. La signora lo prende senza neanche dire grazie, è troppo scioccata dall’incontro con il marziano. Informo gli interessati che l’ultima moda della signora bene nuovayorchese è portare il tailleur con le infradito ai piedi, constato che ci sono sempre molti obesi per le strade e nei ristoranti vedo sempre la gente che con gli avanzi delle pantagrueliche porzioni si fa preparare il doggy-bag, eufemistico modo molto pratico per avere il pranzo pronto l’indomani, consiglio di vedere il più meraviglioso negozio di passameneria al mondo, ci sono persino i bottoni a stella di Davide con gli strass

comunico infine le recentissime, s’intende per me, novità:
  • portarsi il vino al ristorante (l’abbiamo fatto a Philadelphia con Titina in un ristorante cinese che non aveva l’autorizzazione per gli alcolici)
  • i semafori che scandiscono i secondi per i pedoni (visto a Washington)
  • gli occhiali speciali per non piangere mentre si taglia la cipolla ( visto in un negozio)
  • gli involtini primavera cinesi serviti con senape e salsa rubra (mangiati al ristorante)
  • i calabroni giganti ( college Swarthmore)
  • un ponte a due piani ( visto dalla circle-line facendo in mare il giro di Manhattan)
  • le unghie finte più lunghe del mondo ( vetrina di manicure a New York)
  • folle immense per le strade, ma nessuno guarda nessuno, come se ognuno vivesse in una bolla di vetro
  • circolare senza complessi per le strade centinaia di invalidi, autonomi portatori del loro handycap.

Fine percorso, tre città americane totalmente diverse, tutte e tre belle ed interessanti: Philadelphia ricca metropoli di provincia, austera e tranquilla, business, arte e cultura, Washington, città del sud stupendamente restaurata e valorizzata, il centro del potere politico, la fierezza americana, gli homeless e i delinquenti che però sono tanti, New York, grande, grande, grande e non solo in senso geografico o di tutto di più, ma torno contenta nella mia Europa.

mercoledì 30 aprile 2008

Washington

Brava Camille, su internet hai fatto proprio un bel lavoro, l’albergo è centrale e stupendo, vecchio palazzo storico di mattoni rossi,

carico di fascino e di americanità. Da buoni turisti, subito a piedi a vedere la Casa Bianca,

proprio bianca ed in mezzo alla città, scoiattoli a profusione, riconosco all’esterno il luogo dei mitici sit-in contro la guerra in Vietnam ed in generale di tutti gli assembramenti popolari pro o contro qualche cosa, mancano i Beatles, ma ormai siamo tutti invecchiati e anche loro non ci sono più.

Bighelloniamo per le strade eleganti, larghe ed alberate, palazzoni austeri,i luoghi del potere in tutta la loro imponenza, colpisce il contrasto fra i ministeri e le frotte di homeless e di barboni che bivaccano nei giardini proprio accanto.

Chissà, forse sono un memento, attenzione, non è tutto oro quello che luccica. Ricca di un sacco di cose, l’America sembra avara di fantasia, strade senza nome, solo numeri e lettere dell’alfabeto, in compenso i semafori sono molto efficienti, oltre al verde dicono al pedone quanti secondi ha a disposizione per attraversare la strada. La città francamente è proprio bella,

pulita, ordinata, verdissima, dicono lo sia diventata, prima era molto povera e malconcia e, secondo i punti di vista, frequentata da troppi neri. L’indomani il culturbus ci porta in giro per tutto il giorno, sarà un’iniziativa molto turistica, ma francamente utilissima perchè si ferma in tutti i luoghi interessanti della città, scendi quando vuoi, visiti e poi risali, soprattutto ti dà una visione d’insieme dell’ agglomerato urbano. I mausolei dei vari presidenti sfilano, all’apice della collina di Georgetown la possente cattedrale gotica

e la superba strada delle ambasciate e poi la cosa che mi ha toccato di più, il famoso cimitero di Arlington.

Enormi distese di prato con infinite file di stele bianche, nulla più, molto semplice e molto toccante: sulle minuscole pietre sfilano nomi e nomi all’infinito,

prima guerra mondiale, seconda guerra mondiale, guerra di Corea, guerra del Vietnam, le date dei morti raccontano in silenzio di una vita, raccontano anche la storia e la pazzia degli uomini, dietro le lapidi talvolta appare il nome della moglie, sepolta lì accanto, pazienza, anche da morte ci tocca stare defilate. C’è anche John Kennedy con la sua famiglia, figlio e figlia morti prematuramente,e lei, la mitica Jacqueline Bouvier . Non sono una moralista, ma francamente mi disturba leggere Kennedy Onassis, cazzo questo potere del denaro!!! Il venerdì 2 doveva essere giornata supercultura con la visita degli innumerevoli musei del Mall.

Si, si chiama Mall, ma non sono dei grandi magazzini, ma bensì un numero spropositato di musei, la Smithsonian Institution

che comprende 18 fra musei e gallerie, tutto rigorosamente gratuito, si spazia dall’arte africana

a quella asiatica, dal museo dello spazio

con navicella spaziale Apollo alla storia naturale con i dinosauri immortalati cinematograficamente da Spielberg in un suo film, dalla storia degli amerindi all’arte di tutte le epoche, un vero delirio del bello nei secoli e nelle varie culture. Con Camille cominciamo naturalmente dalla National Gallery of Art e la nuova straordinaria sezione

dedicata all’arte contemporanea dell’architetto Pei,

spazio museale di bellezza ed essenzialità formale incredibile. Sono le 11 del mattino, litighiamo a sangue davanti a una striscia dipinta sul muro di Jim Dine. Lo confesso, malgrado gli sforzi ho grosse difficoltà con l’arte contemporanea, non la capisco e non mi emoziona, Camille ne è invece una fans incondizionata. Tira vento di tempesta, è meglio che Telma e Luise si separino per la giornata, ci rivedremo alla sera in albergo. Visito da sola il museo dei nativi americani e poi, basta cultura, me ne vado a piedi al Waterfront

e al mercato del pesce. Siamo in America, non dimentichiamolo mai, tutto è superbig, pesci compresi: bancarelle che espongono quantità non dicibili di scampi, gamberi, sogliole, branzini, razze, tutti taglia extralarge.
La gente arriva, sceglie, si fa cucinare il pesce sulle griglie

e poi se lo porta a casa o va a mangiarlo sul molo. Io sul molo attacco bottone con una signora seduta col cane, è Anne Marie Engel, professore di francese alla Gorgetown University. Non so bene come sia successo, ma nel giro di un’ora ci siamo raccontate la nostra vita scoprendo somiglianze e percorsi affini veramente incredibili, una lingua comune come se ci conoscessimo da sempre, l’indomani mi telefonerà in albergo per invitarmi all’università, ma ero già uscita, peccato! spero diventeremo amiche. Passiamo il sabato visitando bene le stradine di Georgetown,

il quartiere “in” di Washington e la collezione Phillips e facendo una crociera in barca sul fiume Potomac

fino ad Alexandria, piccola cittadina molto turistica sulle rive del fiume dove è nato il presidente George Washington.

L’America non è l’Europa, non ci sono vestigi archeologiche che testimonino di cinquemila anni di storia, c’è la wilderness, la grandiosità della natura nei suoi parchi e nei paesaggi mozzafiato che purtroppo ho visto solo nei westeroni in televisione, dei musei che raccontano la vita dei primi pionieri europei attraverso ambienti, mobili, utensili come ad Alexandria e ci sono i presidenti, tanti, e la cui vita viene sempre documentata nei minimi dettagli, ogni paese valorizza quello che ha.

Ceniamo niente male in un ristorante scelto da me perché si chiama Nathan’s, come il mio cognome, pare sia una catena e tornando verso l’albergo, vicino al Columbus Circle vedo uno splendido palazzo tutto decorato, è la sede centrale di Scientology,

setta che non so come definire e che in Italia abbiamo fortunatamente proibito, ma che in America ha grande potere e visibilità. Dei cartelli davanti all’edificio invitano ad entrare, offrono consultazioni, consigli e una nuova visione della vita con felicità compresa, per amor del cielo, preferisco rimanere ignorante ed infelice e tiro dritto. L’ultimo giorno a Washington è dedicato nuovamente alla visita ai musei, ce ne sono talmente tanti, e all’incontro con Gaia,

brillante figlia della mia amica Miretta che dopo la laurea in scienze politiche a Milano, sta facendo un master alla Georgetownuniversity, quanto di meglio pare per chi vuole cimentarsi nelle relazioni internazionali. Gaia è molto soddisfatta dei suoi studi e delle opportunità della città, mi racconta però che è tra le più violente e pericolose d’America e bisogna stare attenti, ogni settimana l’università invia per e-mail informazione ai suoi studenti sulle aggressioni avvenute, sulle dinamiche degli incidenti, sulle precauzioni da prendere, sui luoghi da non frequentare, sui comportamenti a rischio. Insieme visitiamo i pletorici musei, quello dello spazio, quello africano, quello asiatico, il giardino delle sculture,

è un’occasione anche per lei perché il grande impegno dello studio non le ha permesso finora di fare la turista. Quello che mi colpisce visitando queste favolose caverne di Alì Babà e tutti i musei americani in generale, è che non vengono menzionate quasi mai istituzioni o collettività, ma sempre l’individuo, grande protagonista. Si, cartelli alle varie entrate rinviano sempre alla generosità di individui che hanno donato questo o quello, capacità e intraprendenza del singolo, mai il tutti insieme. Giustissimo valorizzare l’uomo ed il suo operato, ma in qualche modo mi disturba questo individualismo sfrenato che sembra non tener conto di una società nel suo insieme, non sottolineare il valore di un obbiettivo comune, di uno sforzo collettivo. Solo nel business e nella politica si sente il peso di trust e lobbyes, ma questa è un’altra storia.

lunedì 28 aprile 2008

Pennsylvania


When I born, I black
When I grow up, I black
When I go in Sun, I black
When I scared, I black
When I sick, I black
And when I die, I still black

And you white fellow
When you born, you pink
When you grow up, you white
When you go in sun, you red

When you cold, you blue
When you scared, you yellow
When you sick, you green
And when you die, you grey

And you calling me colored??

nominated by UN as the best Poem of 2006 -
Written by an African Kid

Circa 20 anni dopo rieccomi negli States. Questa volta accanto a me non c’è il compagno di una vita dissoltosi misteriosamente nel nulla, chissà forse era solo una proiezione della mia fantasia, ma Camille, un’energica amica francese che si è preparata al viaggio molto coscienziosamente e che sa tutto, di strade, monumenti, musei e cose da vedere. Philadelphia – Washington - New York, itinerario quasi completamente metropolitano, se non fosse per il soggiorno “diverso “ nella prima tappa. A Philadelphia difatti non siamo in città, ma a Swarthmore, a una quindicina di chilometri dalla capitale della Pennsylvenia dove vive da più di 25 anni Carole,

adorata cugina di Camille con il marito Gene. Sono entrambi professori, lei di francese, lui di matematica al College di Swarthmore, pare uno dei dieci più ricchi e prestigiosi d’America. Sono molto gioviali e simpatici: Carole ricciolina, un po’ fra le nuvole e sempre sorridente, Gene in jeans, giubbotto e zainetto in spalla, una fluida coda di cavallo,

beve rigorosamente grappa Nonino e come Carole va quasi sempre in giro in bici, se non fosse per i capelli bianchi immacolati sembrerebbe appena uscito da un collettivo sessantottino, la coppia mi fa venire in mente le mitiche parole della nostra gioventù: peace and love . Dopo baci, abbracci e presentazioni all’aeroporto, il maggiolino di Carole nel giro di pochi minuti si addentra nel verde, alberi secolari, prati a profusione, fioritura spettacolare di rododendri e pruni, villette, ville e villone naturalmente senza staccionata davanti secondo lo stile americano che si fanno ammirare confondendosi nella verdura rigogliosa, penso che sono proprio fortunata e che il viaggio promette bene. Ci hanno messo a disposizione una magione in mezzo al bosco,

con canto d’uccelli e scoiattoli a mai finire, cucina con mega frigo e l’occorrente per una prima colazione da lottatore di sumo, sala da pranzo, living,

biblioteca, due bagni, insomma un vero 10 stelle, è dove vengono ospitati i relatori stranieri ed in generale i professori invitati dal College; i mandarini della cultura erano forse in vacanza, nessun ospite dotto in programma e ce la siamo goduta noi sfruttando la generosa ospitalità di Carole e Gene. Loro abitano in una villetta più modesta

ma molto simpatica ed accogliente a tre minuti a piedi, la loro casa è tutta piena delle sculture originali di Carole e dei dischi di Gene, melomane accanito. Ragazzi che posto questa Swarthmore, mi chiedo se siamo in una riserva naturale, probabilmente si. Nel giardino dei nostri ospiti ci sono cinque o sei mangiatoie per volatili e scoiattoli; mi diverto a guardare e fotografare tutti i commensali di questi trespoli imbanditi, un movimento intensissimo, grande via vai alato e nessun vigile che controlla il traffico. Nel pomeriggio Carole ci fa visitare il College, capisco in fondo perché costino così cari per chi non riesce ad ottenere la borsa di studio: strutture sportive incredibili, piscina olimpionica, caffè, mense, biblioteche sempre aperte e tante palazzine per le varie discipline, certe architettonicamente antiche ed austere come quelle inglesi, altre modernissime come l’istituto di scienze. C’è una atmosfera molto relax, chi legge il giornale (a disposizione il New York Times gratuito per tutti) sotto le fresche frasche, chi sdraiato sul prato sbocconcella un panino o chiacchera, chi s’inventa una partita di scacchi, altro che università italiane sovraffollate e caotiche, qui sembra di essere in un resort alle Maldive, unica nota stonata i calabroni di dimensioni gigantesche, ma si sa, questa è l’America, tutto è oversize, persino gli insetti. Carole ci fa visitare il suo istituto di letteratura e lingue straniere; leggo i nomi dei docenti sulle caselle delle lettere: Camacho de Schmidt, Chiong Rivero, Boutouba, Lahr- Vivaz, Berkowitz, già fra il nome ed il cognome ci sono 2 continenti, alla faccia del melting-pot. Altra sorpresa sono gli studenti; con una buona dose di ignoranza e probabilmente di pregiudizio mi aspettavo una generazione rigorosamente Wasp, gioventù alta bionda e superatletica, invece no, fanciulle piccole, tante nere e rotondette, ragazzi dagli occhi a mandorla, volti una volta ancora dalle provenienze più disparate. So bene che sto osservando una situazione di élite, ma resta il fatto che, quanto a strutture, gli studenti americani mi sembrano più fortunati dei nostri. L’indomani ci aspetta la mitica collezione Barnes,

a una trentina di chilometri dalla capitale della Pennsylvenia. Che dire? Comincio a toccare con mano la straordinaria ricchezza e lungimiranza di questi magnati americani che hanno avuto il coraggio di investire sui più grandi artisti del ‘900 quando l’Europa li faceva morire di fame, li ignorava o li sbeffeggiava; a Washington visiterò la collezione Phillips ed a New York la Frick, tutte in case sontuose divenute fondazioni, fra le più ricche collezioni private del mondo, valorizzate ed offerte al pubblico. La disposizione dei quadri è già tutta particolare, non certo la presentazione rigorosa e parsimoniosa dello spazio museale dove ogni opera è singolarmente protagonista, ma quadri gli uni sugli altri in simmetrico ordine secondo il gusto dell’eccentrico Signor Barnes,: pareti e pareti stracolme di tesori inestimabili, l’occhio strabilia e si confonde, un numero incredibile di Renoir e Cézanne, dei Van Gogh, Matisse, Marcoussi, Soutine, Seurat e dei Picasso del periodo rosa e blu pressoché inesistenti in Europa, una vera orgia espositiva.

Esco intontita dalla bulimica sovrabbondanza e per decomprimere dalle emozioni Carole ci porta a fare un giro in un paesino vicino casa che lei reputa carino. Qualche negozietto, stradine senza nessuno charme, soprattutto senza storia ne passato in un posto che non ha nemmeno un nome vero, perché si chiama “ Media”, come se noi chiamassimo un paesino in Umbria “Mezzo” o “Collina”, anonimo il posto che non ha poverino nemmeno un vero nome . L’indomani, dopo un Yardsale nel garage di una villa vicina (validissima idea americana di vendere due volte all’anno tutte le carabattole inutili o di cui ci si vuole sbarazzare) ci si addentra nella Pennsylvenia profonda per vedere la campagna e le fattorie amish.

Mi interessa sempre la storia delle minoranze, forse perché è anche la mia storia. Gli amish sono la setta più radicale e integralista dei mennoniti, con altri anabattisti frutto di movimenti religiosi sorti nel contesto della riforma protestante nel XVI secolo. Perseguitati in Europa per la loro fede religiosa, una libera interpretazione del Nuovo Testamento, i primi amish arrivano in America all’inizio del 1700, viene concesso loro di stabilirsi nella Pennsylvenia del sud, una area dal nome attuale di Lancaster County, oggi sono all’incirca 90.000 in vari stati, ma soprattutto nell’Ohio. Vivono come 3 secoli fa,

niente elettricità, televisione o sofisticati robot culinari, case supersemplici ed austere, un unico modello d’abito per uomini o donne, cambia solo il colore in funzione dell’età e dello stato sociale, appeso in camera da letto il vestito buono per la domenica, il giorno della funzione religiosa e del pasto collettivo, naturalmente niente merendine del Mulino bianco, tutto rigorosamente fatto in casa come nel passato, il calesse nero come la pece per spostarsi e forse per non permettere ai giovani di allontanarsi troppo e gustare le tentazioni della modernità. La scuola è solo fino alle medie perché pensano che per fare il contadino non serva molta istruzione; la cultura, si sa, fa venire delle idee ed è quindi molto pericolosa. Siccome rifiutano vantaggi e svantaggi del progresso e naturalmente vade retro contraccezione credo passino le serate con il divertimento gratuito più antico del mondo perché hanno una barca di figli ( chissà se conoscono il nostro vecchio detto italiano “non lo fo per piacer mio, ma per dare un figlio a Dio? ). Non disdegnano invece i soldi, le loro fattorie di proprietà sono enormi, riconoscibili dalla struttura bianca, larga e squadrata, la base con mattoni rossi, un immenso silos bianco come una torre alta e rotonda che svetta nel centro della casa colonica, una grande ruota in mezzo al prato per irrigare i campi e una grande ventola che sfrutta l’energia eolica per l’acqua in casa. A vedere i bambini tutti vestiti di nero cappello compreso e camicia bianca camminare per strada, ho pensato che assomigliavano proprio agli ebrei ortodossi della mia tribù, mancavano giusto i cernecchi di capelli sui lati. Ho visitato una casa amish museo per rendermi conto veramente di un ambiente ‘700 tuttora funzionante nel XXI secolo, peccato che guardando fuori dalla minuscola finestra, a poche decine di metri, ho visto un immenso e rumoroso supermercato Target.

All’una abbiamo mangiato in un loro ristorante, già il nome “Good and planty” -buono e tanto- la dice lunga: sulla lunga tavolata comunitaria con tovaglia rossa a quadretti sfilavano purè di mele e di patate, insalata di tonno, insalata di cavolo, giardiniera di verdure all’aceto e zucchero, paté di maiale dolce, pollo fritto in quantità, dolci a 10.000 calorie con l’onnipresente melassa. La contanimazione della modernità per i poveri amish è alle porte, fra le loro fattorie si annida il nemico mercantile della società di consumo, proprietà di gente comune mostrano antenne paraboliche sui tetti frantumando l’omogeneità architettonica e non solo delle loro farms e del loro stile di vita. La mia riflessione finale è stata che sarà una fregatura nascere ebrei, ma anche essere amish non è mica uno scherzo! Domenica 27 aprile e martedì 29 giornate a Philadelphia con il suo spettacolare Museum of Art,

di nuovo bellezze da mozzare il fiato: stupenda mostra di Frida Kahlo, i 3 musicanti di Picasso, le opere dei primi periodi, i migliori, di Mirò (mai visti prima suoi quadri figurativi), Chagall e tanti altri, sezione asiatica ricchissima e poi in giro per la città con Carole, guida sempre generosissima. Walnutsstreet, il vivacissimo Reading Terminal Market,

Chinatown,

Southstreet, il quartiere dei giovani,il Cityhall in mezzo alla città moderna, grattacieli, la torre di Pei,

l’edificio dove è stata firmata la costituzione americana, i quartieri antichi della città vecchia

con le case in mattoni rossi e le stradine verdissime come nei bei quartieri di Londra. Lunedì 28 piove a dirotto, per visitare al riparo dall’acqua scrosciante il maggiolino di Carole gira le ruote per un’oretta e ci porta ai Longwoodgardens nella Brandywine Valley.

Casa di campagna del finanziere belga Pierre du Pont, la famiglia arrivò in America agli inizi dell’800, l’edificazione di questo luogo meraviglioso si snoda per due secoli: praticamente gli esterni di Versailles

o i giardini di Boboli oltreoceano. Serra vittoriana immensa, fontane, giardini, teatro di pietra, fiori piante bulbi foglie e arbusti di mille e mille varietà e colori in un sobrio tripudio espositivo per la gioia di tutti i sensi;

nel patio della residenza, su una poltrona di vimini, troneggia immobile un immenso ( solita oversize d’oltreoceano) gatto dechirichiano,

sonnecchia e ti guarda con la calma e la regalità di colui che semplicemente sa di essere in mezzo al bello assoluto. Parlo con una distinta signora dietro al banco di accoglienza: è una volontaria, offre la sua gratuita collaborazione 2 giorni alla settimana, ce ne sono altre 400 come lei, più 40 studenti in stage e 150 giardinieri, un vero impero del verde. L’esercito dei volontari negli States è immenso, li trovi in tutti i musei e le fondazioni. Un discorso a parte meritano le nostre serate, Camille e la sottoscritta generosamente invitate dagli amici di Carole e Gene. Finalmente ho conosciuto da vicino l’intellighentzia americana, quella che legge il New Yorker, vive in modo molto meno sofisticato del nostro e non vota certamente Bush. Case semplici e confortevoli nelle adiacenze del college, libri dappertutto, melting-pot abituale, una grande giovialità e ….il crollo di un altro mio stupido pregiudizio, altro che prodotti surgelati, hamburger, hot dog e patatine fritte, qui raffinatezze culinarie da slow food di altissimo livello, tutti prodotti freschi rigorosamente doc cucinati con sapienza e raffinatezza, vini da maledire di essere astemi, insomma, mi sono piaciuti un sacco e mi sono trovata benissimo; cito nel mazzo Hans Jakob, svizzero tedesco con moglie americana, un figlio a Seattle per studiare e la figlia a Berlino, Presidente del club slow-food locale da lui fondato, Laura, la pasionaria fuego e vino, cilena che è dovuta scappare da Pinochet e dopo Boston è approdata nell’isola felice di Swarthmore, Titina Caporali che grazie alla sua passione per la Cina, ha lasciato il paesello campano fra i monti e si è vista catapultare da studente curioso a Pechino, all’epoca ancora chiusa agli occidentali di massa, fra i grossi nomi del giornalismo internazionale, Ferrero e Ostellino allora corrispondenti del Corriere, con Terzani giovane inviato dello Spiegel ancora ignaro del successo futuro. Titina ed il marito, Alain Berkowitz ( notare la miscellanea cromosomica della coppia), sinologo affermato, la pasta la fanno come a Posillipo, con il pomodoro vivo vivo e un basilico freschissimo e profumato che incanta. Si parla di tutto, politica, letteratura, ricette di cucina, gli studi dei figli in grande semplicità e giovialità. Grazie amici americani, belle serate!!! Il soggiorno in Pennsylvenia finisce, prendiamo l’autobus delle compagnie cinesi perché il mitico Grayhound

costa più caro e gli orari non ci convengono,Washington ci aspetta.