mercoledì 28 dicembre 2016

per il 2017 alle porte: comunque adelante Pedro!

 "Fortuna che è passato. Sì, cara Sara, perché mano a mano negli anni ho sviluppato una vera e propria idiosincrasia per il Natale con tutti i suoi finti “vogliamoci bene” e i suoi riti consumistici ormai all’eccesso". Ricevo questa mail e condivido il pensiero dell'amica Franca: anch'io sono contenta che per quest'anno col Natale abbiamo chiuso e non me la sono cavata male, nemmeno mezz'ora di shopping, due o tre panettoni in regalo solo a chi veramente di dovere e niente tovaglie rosse, renne, stelle e angeli, addobbi improponibili e abboffate letali; la vigilia cena in cucina con uno dei miei ragazzi e la sua fidanzata ed eravamo tutti e tre in pigiama grazie a una giornata di completo relax domestico e il 25, lunga passeggiata sulla promenade nizzarda con pic nic in riva al mare, pane formaggio e due mandarini. Il più grande rispetto, intendiamoci, per il Natale con la sua valenza religiosa per le centinaia di milioni di cristiani nel mondo, ma la sacralità dell'occasione non mi appartiene e sono contenta di avercela fatta ad uscire dalla kermesse godereccia di pranzi, cene e regali inutili a tutti i costi. Ricordo certo dei natali ben diversi a casa e mi piaceva pure, ma negli anni cambiano le circostanze e cambiamo pure noi, non mi arrischio a dire se in meglio o in peggio. Via uno, resta il secondo momento topico tormentone, l'ultimo dell'anno che inesorabilmente rimanda al tempo che avanza, un bilancio dell'anno che è passato, timori e speranze per quello che verrà. Francamente il 17 non mi sembra un gran bel numero, superstizioni a parte, però vedremo, qualcosa di buono ci scapperà senz'altro.

A proposito del tempo che passa, difficile essere originali visto che ne parlo sempre in questo periodo dell'anno. Quando l'abbiamo piantata, nel '90, era raso terra, ci ha messo 26 anni a crescere quella palma phoenix e a diventare bella com'era, l'unica del mio giardino, alta e rigogliosa  fra basse lavande, rosmarini e lantane, una vera meraviglia, solo qualche cipresso osava sfidarla in altezza. Sono bastati sei mesi perché i "punteruoli rossi", la traduzione italiana trovata per il termine francese di "charançon" se la mangiassero tutta, un tronco largo e robusto divenuto poltiglia nel suo interno. Questo micidiale parassita originario dell'Asia, non ha divorato solo la mia palma, ma anche il tempo, 26 anni di paziente lavoro di crescita consumati  nello spazio di pochi mesi.  Oltretutto mi tocca vedere adesso il tetto della mia vicina che la palma aveva il buon gusto di nascondere generosamente. Ne hanno reciso un bel pezzo per vedere se si riprendeva, ma niente da fare, è lì come un triste monolite che ha perduto l'anima in attesa di essere tagliato del tutto e togliere il disturbo. Non mi consola affatto sapere che il charançon è super attivo e che la triste sorte è toccata  a molte altre palme del circondario, il proverbio "mal comune mezzo gaudio" mi è sempre sembrato una gran stronzata. Sconcertante comunque la riflessione fra i tempi lunghi della costruzione e quelli proporzionalmente irrisori della distruzione e non sto certo pensando solo alla mia palma, gli uomini hanno forse imparato dagli charançons e sanno fare drammaticamente ancora più veloce.

Gli auguri dovrebbero essere belli e gioiosi, sennò che auguri sono, ma quest'anno l'ottimismo risulta un po' difficile con tutto quello che ci succede intorno, terremoti, migrazioni epocali, un Mare Nostrum trasformatosi in cimitero, guerre, terrorismo e tanta sofferenza giornalmente davanti ai nostri occhi. Mi dispiace, ma quest'anno va così, riesco solo a dire....comunque adelante Pedro, il 2017 è alle porte.

lunedì 26 dicembre 2016

Saint Emilion: fra i vitigni della campagna bordolese


Fra il New England e Israele e fra novembre e dicembre, ci ho infilato dentro anche cinque giorni a Bordeaux. Non ne ho parlato subito perché in questo periodo ho viaggiato più di quanto riesca a scriverne, ma era da agosto che non vedevo il mio adorato nipote e la nostalgia è una molla potente per spiccare il volo anche se sei stanca e magari te ne staresti quatta quatta a casa. A parte i giochi e le risate con Noam, quelli me li tengo per me, e la pioggia pressoché costante che ha imperversato in quei giorni, di sabato il cielo è stato grigio ma clemente e i ragazzi mi hanno portato in giro per la campagna bordolese a visitare due antiche cittadine Libourne e Saint Emilion.
Libourne è una città fortificata reale fondata nel XIII° secolo per volere di Enrico III d'Inghilterra ed è il suo fedele amico, il cavaliere Roger de Leyburn che la fa erigere nel 1270, da cui il suo nome. A quell'epoca numerosi bastimenti carichi di botti di vino della regione partivano dal porto di Libourne sulla Dordogna verso l'Inghilterra e negli anni recenti la cittadina ha recuperato la sua storia portuale sviluppando il turismo fluviale.  Non me ne intendo né di vino né di degustazioni, ma tutta questa regione della Gironda ha indissolubilmente legato la sua storia alla produzione vinicola e percorrendola si incontrano tenute, castelli, proprietà magnifiche dedite a coltivare distese infinite di vitigni e itinerari eno-gastronomici studiati ad hoc. Tra l'altro ho pensato che non serve andare fino in New England per godere della gamma di gradazioni autunnali di foglie e natura, fantastici  rossi e gialli a perdita d'occhio.

E con tutte le sue vigne intorno  ecco spuntare il bel borgo di Saint Emilion. Il suo prestigioso vino era qualificato di "onorifico" già nel Medio Evo perché lo si offriva in omaggio ai sovrani e alle personalità importanti e il consiglio municipale aveva l'incarico di controllarne la qualità; questo consesso di esperti si chiamava "la Jurade" e ricostituito nel 1948, esercita tuttora questa funzione. Tutti gli anni in primavera i giurati, con le loro vesti scarlatte bordate di ermellino e la cuffia di seta in testa, ascoltano la messa, vanno in processione e poi si riuniscono per decidere se la raccolta dell'anno precedente merita di ricevere il sigillo che ne attesta l'eccellenza. Ogni coltivatore poi presenta la sua produzione e, quando va bene, si vede attribuire il marchio di  "Saint Emilion, origine controllata". In autunno, gli stessi giurati, dall'alto della Torre del Re, proclamano solennemente l'inizio della vendemmia. Pleonastico dire che tutte queste cerimonie si accompagnano con gran mangiate e abbondanti libagioni.
Saint Emilion: una distesa di vecchi tetti contigui fra loro quasi senza soluzione di continuità: da un parte il castello del re fatto erigere da Luigi VIII° secondo gli uni, da Enrico III° Plantageneto nel 13°secolo secondo altri, dalla parte opposta del borgo la Collegiale con il suo chiostro del 1300, entrambi a perpetuare nel tempo che fu potere religioso e potere temporale. Nel chiostro varie pitture e mi sono piaciuti molto gli angeli dell'artista François Peltier che pratica indistintamente l'arte religiosa e quella profana sostenendo che in fondo la ricerca artistica è la stessa: il tentativo di trasmettere un senso di sacralità attraverso l'uso della materia. Nel centro del borgo l'antica piazza del mercato.
Dalla piazza del mercato si accede alla particolare chiesa monolitica  tutta in roccia calcarea che purtroppo abbiamo visto solo dall'esterno. Pare che sia la chiesa sotterranea più importante di Francia, scolpita completamente nella pietra fra il 9° e il 12° secolo, ingrandendo grotte e cave preeesistenti. 
E visto che si sta parlando di vino, l'indomani siamo andati a fare una capatina a Bordeaux alla "Cité du vin" in fondo al quartiere di Chartrons di cui volevo vedere la particolare architettura che vuol far pensare a un ceppo nodoso della vite. Ci siamo andati col BatCub, il traghetto fluviale che attraversando ponti vecchi e nuovi solca la Garonna e che passa ogni mezz'ora. 
Francamente non sono convinta sulla costruzione esteriore, ma gli interni mi sono sembrati magnifici. Una cantina spettacolare con una selezione dei migliori vini del mondo. Mannaggia che fregatura essere astemia!!!


domenica 18 dicembre 2016

Tel Aviv: il cyber cavallo di Troia

Tutto cambia e nulla cambia; nella precarietà più assoluta del nostro vivere, fa bene qualche certezza, per quanto effimera o irrilevante che sia e da questo punto di vista Tel Aviv è una garanzia, non mi delude mai. All'hotel Prima in Hayarkon street ritrovo  la mia stanza 513 con la sua grande finestra spalancata sul mare, le due mega sdraio sulla spiaggia che per quanto mi concerne dicono la verità, amo Tel Aviv e Tel Aviv contraccambia, i profili delle case Bauhaus del passato o quelle nuove di pacca del presente, i ristorantini trendy a di Giaffa, quei tramonti favolosi che, come recitano le guide,  valgono loro da soli il viaggio, al mercato rapanelli, carote e banchetti di frutta e verdura dagli sgargianti colori. Bellissima sorpresa trovare in via Lilienblum al numero 3 quel chiosco, uno dei primi costruiti a Tel Aviv che fotografavo diroccato tutti gli anni con la saracinesca abbassata , finalmente restaurato e oltretutto fa un ottimo caffè. Sarà un  dettaglio infimo, ma è una bella soddisfazione e c'è tanto di cartello che ne racconta la storia in arabo, inglese ed ebraico.
Dopo il mio recente viaggio in New England e averne visti di stupendi di cui peraltro non ho ancora finito di scrivere, mi è venuto il pallino dei campus universitari perchè ci sono architetture all'avanguardia e vi si respira una buona aria di cultura, arte, confronto e i giardini sono sempre tenuti da dio. Sono così ritornata a Ramat Aviv, quell'area modernissima dove ha sede l'università  che tanto mi era piaciuta sei anni fa. Per le notorie ragioni di sicurezza,  il campus non è aperto come Yale o Harvard ma circondato da inferriate. All'ingresso devi aprire la borsa, mostrare un documento, spiegare perché ci vai, ma una volta dentro, liberi tutti e stiamo parlando di 30.000 studenti che lo frequentano. Davanti all'ingresso una lunga fila silenziosa e composta di studenti arabi israeliani che distribuivano dei volantini che mi sono fatta tradurre: lamentano la mancanza di pari opportunità, il sentirsi cittadini di serie b, chiedono al governo di Netanyahu più attenzione per le loro istanze e per i fratelli di Gaza. Già, la realtà è sempre più complessa di come appare, diversa da quell'isola felice di volti di studenti di tutte le razze e colori che sfilano proprio dietro a loro sul muro dell'attuale installazione della Galleria universitaria d'arte Eugenia Schreiber. Questi giovani forse non ne sono pienamente consapevoli ma hanno comunque la fortuna di vivere nell'unica democrazia dell'area e giustamente esercitano il loro sacrosanto diritto di protestare e far sentire la loro voce in piena libertà. 
Nel complesso della meravigliosa sinagoga del campus progettata da Botta che è anche un Centro Studi dell'Eredità Ebraica, c'erano vari pannelli su Elie Wiesel, scomparso nel recente mese di luglio, con le sue pubblicazioni e molte fotografie. Probabilmente sono in corso delle conferenze su di lui. Non so precisarne le ragioni, ma il personaggio non mi è mai piaciuto fino in fondo e non sono la sola, anche altri e in ben più alte sfere, il regista Claude Lanzmann in primis,  hanno espresso delle perplessità. Credo gli si rimproveri, senza nulla togliere al suo costante impegno di una vita per i Diritti Umani coronato dal premio Nobel per la Pace nel 1986, di essersi impadronito della memoria collettiva della Shoah e di averne quasi voluto essere l'esclusivo testimone e portaparola.
 Con un ritardo di "soli" vent'anni dalla sua pubblicazione, mi sono però messa a leggere la sua autobiografia "Tous les fleuves vont à la mer. Mémoires" (1994 éditions du Seuil) e devo dire che mi ha molto toccata. Proprio nessuna arroganza da "cavaliere senza macchia e senza paura", anzi, lo scrittore si racconta senza celare difficoltà, insicurezze, i tentativi talvolta falliti di essere all'altezza di certe situazioni  umane-storico-politiche; ein Mensch, un uomo insomma, che non nasconde le sue debolezze. Nelle foto lo si vede con vari grandi delle storia, fra cui Ben Gurion, Golda Meir, anche con il Presidente François Mitterand suo amico di lungo corso. A questo proposito ho visto di recente un'intervista di Elie Wiesel: malgrado la lunga frequentazione Wiesel, aveva ignorato, come molti del resto, che Mitterand in gioventù, prima di passare nella Resistenza e presentarsi come lindo socialista aveva collaborato con René Bousquet, segretario generale della polizia di Vichy, uno degli uomini chiave della deportazione degli ebrei durante il regime filo-nazista francese. Nell'intervista televisiva Wiesel racconta del chiarimento fra loro all'Eliseo, del rifiuto di Mitterand di riconsiderare criticamente le scelte del passato e di quell'amicizia durata anni che lui ha bruscamente voluto interrompere senza nemmeno una stretta di mano. Come si fa a stringere la mano a uno che è stato connivente con Bousquet e non ne prende storicamente le distanze manco cinquant'anni dopo?

La prima sorpresa del campus subito fuori dal recinto è stato questa volta l'Auditorium Smolarz che non conoscevo  e la seconda il cyber cavallo che accoglieva all'ingresso i visitatori della cyber conferenza che si teneva in quei giorni. Bellissimo e inquietante il cavallo che per questo ricorda quello di Troia. Formato, come scrivono gli autori, da migliaia di componenti infette da virus di computer e cellulari, l'opera invita alla riflessione: un cattivo uso dei formidabili strumenti oggi a disposizione trasformano l'ambiente virtuale in un luogo ostile e non in un'occasione di libero e positivo confronto.