lunedì 22 ottobre 2012

la sposa

La prima sposa dell'impero del sol levante l'ho vista nel quartiere di Odaiba, artificialmete costruito ai confini con l'acqua: palazzoni ma anche tanto verde e una spiaggia inventata. In quel tratto di mare si può fare del windsurf ma è proibito nuotare. Nel quartiere troneggia su tutti la costruzione della Fuji Television del grande architetto Kenzo Tange e c'è persino la statua della Libertà; mi ha colpito constatare che non è rivolta verso il mare per accogliere gli immigranti come a Ellis Island, ma verso la terra ferma. Da queste parti si suole dire che i giapponesi nascono shintoisti, si sposano da cristiani e muoiono come buddhisti, affermazione paradossale che sintetizza all'estremo la mentalità giapponese, pragmatica e attaccatissima al passato, ma con quell'incredibile capacità degli asiatici di assorbire ogni nuova influenza. Una religiosità non vissuta come fede individuale e intimista, ma come esperienza sociale, culturale e intellettuale e dove convenzioni, tradizioni, cerimonie e riti svolgono un ruolo essenziale.


Forse più che per la sacralità  religiosa dell'evento, il matrimonio cristiano  all'occidentale è ambitissimo    per la cerimonia, per tutta quella carica simbolica e rituale, per il vestito lungo bianco che le giovani giapponesi adorano. Vuoi mettere quello stupendo strascico di tulle e le foto ricordo al Palazzo Gucci, uno dei tanti templi dove qui in Giappone si adora la "divinità moda"  nello sciccoso quartiere di Omotesando? 

All'epoca mi sono sposata in municipio in dieci minuti con un vestitino normale di lana beige e non ho neppure fatto il viaggio di nozze; ero un'anticonformista e forse lo sono rimasta. In fondo continuo a preferire  la signora che si guarda il mare sulla sua bella spiaggia artificiale

domenica 21 ottobre 2012

flash incredibile, ma vero

Su tutti i  marciapiedi di Tokyo e nella varie situazioni stradali per terra ci sono quadrotti o lunghe strisce bianche o gialla fatte di puntini sollevati, come se fossero scritte in braille, evidente e rispettosa segnalazione per i non vedenti.

Però non basta, a certe fermate di metropolitana ho sentito  il cinguettio di un uccellino uscire da un microfono. Segnale acustico di avvertimento per i non vedenti o una proposta di serena natura per allietare le orecchie di tutti nell'attesa dei treni ? Non conosco la risposta.





Però so il perché di questa segnalazione per terra davanti ai binari: nelle ore di punta quando il treno è affollato  donne e non vedenti hanno a disposizione una zona di rispetto solo per loro.





e se la ridono sorridendoci amabilissime le giovani studentesse appena uscite da scuola.


sabato 20 ottobre 2012

monte Fuji flash

Ero lì bella tranquilla al mio posto sull'aereo col naso incollato al finestrino per guardare questo Giappone che si stava gradatamente concretizzando sotto i miei occhi, prima il mare del Giappone che non finiva mai, poi verdi colline e montagne e incuneato fra loro come il corso di un fiume non fatto d'acqua ma di case e campi coltivati, quando inaspettato, maestoso, magico fra le brume appare lui, il Monte Fuji.




Il Fuji-san che è nella mente e nel cuore dei giapponesi, uno dei simboli della loro identità. Il Fuji, la montagna più alta del Giappone con i suoi 3.778 metri d'altezza, la perfezione del suo cono vulcanico e la neve che ammanta la sua punta. è meta di pellegrinaggio (almeno una volta nella vita dicono i shintoisti) e di turismo, quasi un percorso iniziatico per i giapponesi stessi e per coloro che si vogliono avvicinare alla loro cultura.




La sua ultima eruzione registrata pare risalga al  1707, ma si è costruito un santuario ai suoi piedi per scongiurare la sua potenziale furia devastatrice.
Leggo che ai piedi della montagna c'è una bellissima area di laghi, altopiani, cascate e grotte. Finora il Monte Fuji l'avevo solo visto onnipresente nelle stampe giapponesi e particolarmente in quelle "Trentasei vedute del Fuji" di Hokusai.




Dallo spettacolo del Fuji ai grattacieli di Tokyo, volando, il passo sarà breve.

mercoledì 17 ottobre 2012

verso l'impero del sol levante

Francamente credo che mi dovrò decidere a destinare ad altro uso quell'angolo dello scaffale in sgabuzzino in cui ripongo la valigia chiusa, perché la tengo sempre aperta sul divano nel mio studio, così è già pronta. Questa mia mobilità non è horror vacui, a casa ci sto benissimo, la molla è l'urgenza di recuperare quei primi cinquant'anni di vita in cui ho molto sognato, guardato le diapositive degli altri in interminabili serate a fine vacanze e poco viaggiato e poi la comparsa delle prime e seconde rughe hanno fatto il resto, il tempo stringe e non va sprecato. Quanta curiosità per il Giappone, per esempio, dove non ho mai messo piede, ma se la mia abituale formula scaramatica pronunciata in sordina prima di ogni viaggio funzionerà una volta ancora, domattina, con gli amici dell'Associazione Le Corbusier, ci siamo dati appuntamento a Londra da dove insieme spiccheremo in  volo per l'Impero del Sol Levante; ne sono curiosa e felicissima. Con loro negli anni passati ho già fatto due viaggi molto bene organizzati in India e in Germania, dove il grande "Corbu" ha progettato e esercitato grande influenza. E' un gruppo parigino molto preparato e non se la tirano, sono degli amici e con loro imparo sempre tanto; avremo come guida un'architetta giapponese trasferitasi nella ville lumière, si chiama Hai.
Itinerario da brivido,  tappe veloci da turista giapponese, oserei dire, per vedere il più possibile, ( mostro la mappa del nostro giro preparata dall'amica Camille), tranne tre notti a Tokyo si cambierà di letto ogni sera. Non mi sono preparata sui luoghi  che visiteremo, lo farò in seguito e poi preferisco la sorpresa, ma per intanto e nell'attesa ho letto qua e là sul paese, la gente e le abitudini. Non parlo della "guardiana dei cessi" protagonista-vittima di "Stupore e tremori" di Amélie Nothomb perché sennò in Giappone passa la voglia di andarci, ma  per esempio di "Journal de voyage au Japon" di Michel  Tournier con un passaggio fulminante: "Miniaturisations. Le Japon, c'est l'anti-Canada. Au Canada tout le monde souffre de l'excès d'espace, du vertige des immensités. Au Japon le manque d'espace développe les techniques de miniaturisations. Jardin en pot. Arbres nains, jardins zen qui figurent des mers et des continents".

Intrigante anche il recentissimo  " Au Japon. Ceux qui s'aiment ne disent pas je t'aime" di Elena Janvier. Un libretto smilzo che si legge in un attimo, ma lì ho scoperto che in Giappone:
  • non esiste la nostra magica espressione "ti amo", ma pudicamente "c'è dell'amore" come si direbbe asetticamente "fuori nevica o piove"
  • il colore del lutto non è il nero, ma il bianco
  • quando parli l'ascoltatore annuisce spesso ma non perchè è d'accordo, semplicemente per confermare che sta ascoltando
  • se nelle piazze di Parigi o di Venezia ci sono i piccioni, a Tokyo invece scorazzano i corvi
  • si fanno delle riunioni per preparare le riunioni
  • non si risponde mai "no", ma un diplomatico "è difficile" che praticamente vuol dire la stessa cosa
  • è sempre in vigore la pena di morte per impiccagione
  • in giapponese esiste una parola intraducibile che designa lo sguardo dell'imperatore e solo il suo. Ma nessuno può vedere quello sguardo poiché è proibito guardare l'imperatore
  • a differenza dei tifoni occidentali dai nomi di donna, quelli giapponesi non hanno sesso, ma solo un numero e ogni anno si ricomincia il conto dopo l'estate quando si apre la stagione dei tifoni
  • alla larga dall'abbronzatura e dal sole: "il meglio del sole, è l'ombra" si legge in un romanzo giapponese di Jean Echenoz
  • l'inferno noi lo immaginiamo rovente fra le fiamme, ma per i giapponesi gli inferi hanno 16 regioni, 8 di fuoco e 8 glaciali. Consoliamoci, i nomi di quegli abissi di ghiaccio sono molti poetici: loto rosso, loto blu, loto scarlatto, loto bianco....  .
Per finire un libro interessantissimo "La dimensione nascosta" dell'antropologo  americano Edward T. Hall e gli amici architetti mi dicono che l'ho scoperto molto in ritardo perché è considerato un testo chiave per coloro che si occupano di urbanistica . Partendo dall'osservazione del mondo animale, lo studioso analizza quello spazio nascosto ma necessario e invalicabile di cui ogni essere vivente  ha bisogno per vivere in equilibrio nel suo habitat, "Lebensraum" (spazio di vita, letteralmente) lo definisce il tedesco, e lasciamo perdere l'uso nefasto che ha fatto il nazional-socialismo di questa bellissima parola. Hall dedica molte pagine allo specifico giapponese e sottolinea come ogni civiltà abbia una maniera diversa di concepire lo spazio e la sua organizzazione. Gli abitanti del sol levante di spazio ne hanno poco e dunque lo vivono diversamente: non attraverso muri fissi, ma col gioco di pareti mobili la stessa stanza avrà più funzioni e le varie attività si concentrano al centro dell'ambiente. A seconda del momento della giornata e delle necessità la stanza potrà ingrandirsi  fino a comprendere il giardino esterno o rimpicciolirsi come uno studiolo. Fondamentale secondo l'antropologo quel concetto peculiare alla cultura giapponese del "ma", lo spazio"fra", l'intervallo fra le cose, dove ogni tipo di "intervallo" ha un suo preciso significato e un nome diverso; forse per questo a Tokyo le strade non hanno un nome mentre ce l'hanno i crocevia, luoghi dell'intervallo e dell'intersezione e le case sono numerate non in base alla sequenza stradale ma alla loro anzianità. Leggere "La dimensione nascosta"  fa riflettere  su quanto le diverse concezioni degli spazi e dei modi di viverli testimonino  di culture e mentalità profondamente eterogenee, esserne consapevoli aiuterebbe la reciproca comprensione.




E manco a farlo apposta al museo Leopold di Vienna ho appena visto una bellissima mostra dal titolo che fa subito entrare in atmosfera esotica:  "Fragilità dell'esistenza".
 Uno choc culturale non indifferente, dall'espressionismo intenso e materico di Schiele e Kokoschka si passa alla delicatezza di colori e soggetti, agli spazi bianchi, ai paraventi  di alberi e radici; dalle donne sensuali tutte eros e thanatos di Klimt ai mandorli in fiore con l'uccellino sul ramo e una timidissima luna che sembra galleggiare nel cielo, alle maschere lignee del teatro no, alla "Grande onda di Kanagawa" della serie "36 viste del monte Fuji" di Okusai. Quando si dice..... le coincidenze!


lunedì 15 ottobre 2012

Vienna felix

Per celebrare Gustav Klimt di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita a Vienna hanno creato persino un neologismo, klimtig, un aggettivo che non conoscevo e che non ho trovato sul dizionario,  immagino voglia dire " alla Klimt, alla maniera di Klimt". Alla maniera di Klimt significa implicitamente rimandare alla Secessione che sventola fieramente il suo programma in quelle  famose parole incise sullo splendido palazzo simbolo del movimento concepito da Joseph Maria Olbrich nel 1898: "Der Zeit ihre Kunst. Der Kunst ihre Freiheit" (Ad ogni epoca la sua arte. All'arte la sua libertà) e dove all'interno si  trova Il Fregio di Beethoven, opera stupenda creata da Klimt nel quadro di una esposizione del gruppo della Secessione per celebrare nel 1902 il sommo musicista. Il murale, lungo più di 34 metri ha suscitato all'epoca grande ammirazione ma ha anche attirato su di sè dure critiche per il suo carattere erotico e la sua carica simbolica. (Ne mostro solo un frammento)
Kolo Moser
Con mostre in tutti i suoi musei la Vienna di oggi celebra a giusto titolo  Klimt,  la Secessione e  la Vienna del primo novecento, come un'opera d'arte totale. Credo infatti di poter scrivere che l'Art Nouveau di fine 800 e primi 900, di cui lo JugendStil è l'espressione austriaca (modernismo in Spagna, liberty in Italia, art nouveau in Francia e Belgio, Art & Craft in Inghilterra) rappresenta il primo movimento globale non solo in senso artistico, ma anche geografico. Già  il  Romanticismo di primo ottocento aveva avuto carattere internazionale, caratterizzato com'era da una nuova sensibilità e comunanza  espressiva  di molti artisti di paesi europei, ma l'anima romantica si è manifestata particolarmente solo in campo pittorico, letterario e musicale.

Kolo Moser
L'art nouveau invece espande i suoi principi estetici in ogni direzione, letteratura, architettura, pittura, scultura, musica, grafica, decorazione, lavorazione del vetro, gioielli, manufatti  del vivere quotidiano. Un movimento che si vuole globale come tenteranno in seguito altre avanguardie, per esempio il surrealismo, il futurismo e il Bauhaus, ma solo "in seguito" appunto.  Incredibile pensare dunque che, negli stessi anni e senza tutte le possibilità di scambio, informazione e comunicazione del nostro presente, in tutta Europa e persino in America  artisti e artigiani, ognuno con le sue peculiarità naturalmente, si muovano contemporaneamente nella stessa direzione, cercando nuove strade creative con una libertà espressiva che l'arte nei secoli precedenti non aveva mai concesso. Una prima globalizzazione dell'estetica senza televisione nè internet.
Vienna 1900 dunque, grande laboratorio di idee, fucina di pensiero, clima fruttuoso per l'arte e per la scienza, come la Parigi fra le due guerre, come New York durante il secondo conflitto mondiale, riparo sicuro per artisti e scienziati europei. Mecenati della borghesia e saloni intelletuali sono allora in grande fermento, si cerca di conciliare tradizione e modernità: Hugo von Hofmannstahl, Arthur Schnitzler e Franz Werfel sperimentano nella scrittura, Gustav Mahler, Alban Berg e Schoenberg spingono lontano le loro ricerche musicali. Mentre Freud inizia a parlare di psicanalisi , Adoolf Loos rivoluziona l'architettura, Klimt avvolge le sue creature sulle tele in un colorato manto di eros e thanatos e Schiele con Kokoschka provocano con il loro espressionismo dalle forme e dalle tinte forti. Curioso notare che l'anno 1918 vede da una parte la fine del primo conflitto mondiale, ma anche la morte di quattro grandi esponenti della Secessione: Klimt, Otto Wagner, Kolo Moser e Egon Schiele. 

Prima una visita al Wien Museum 400 opere grafiche di Klimt, tra stampe, litografie ed acqueforti; poi nello straordinario Quartiere dei Musei ( sorto all'interno dell'area un tempo destinata alle scuderie imperiali e dove si trovano ora il Leopold, il Mumok, lo Zoom ovvero il Museo per i bambini, la Kunsthallee e varie altre strutture culturali nonché caffè e ristoranti) e mi chiedo perché a Milano non sia possibile a differenza di altre città europee e americane creare un polo museale di tale bellezza, immancabile la mostra al Leopold, che possiede la più grande collezione al mondo di opere di Schiele.

Ma, già che c'eravamo abbiamo fatto una capatina anche al modernissimo Mumok per l'arte contemporanea, dove mi ha interpellata il significato artistico dell'opera "Halbvoll/halbleer" del 1975, un bicchiere d'acqua "Mezzo pieno/ mezzo vuoto" appunto dell'artista ceco Frantisek Lesak. D'accordo l'arte concettuale, l'arte povera, la Minimal Art, la Landart, ma malgrado tutti gli sforzi ho spesso problemi con l'arte contemporanea e se qualcuno mi volesse spiegare gli sarei molto riconoscente.



Bellissima all'esterno come all'interno la struttura dello Zoom, pieno di atelier creativi  affollati di bambini e genitori.
Al Belvedere Superiore finita purtroppo la mostra "Gustav Klimtl/ Joseph Hoffmann, i pionieri del Modernismo" stupenda comunque  quella attualmente in corso "I 150 anni di Gustav Klimt", con documentazione e opere della vita intima e familiare del pittore. Ciliegina finale i suoi quadri oro, apoteosi della raggiunta maturità artistica, il Bacio, Giuditta e Salomè. 

Come ultimo flash dei giorni viennesi vorrei parlare del Museo di Arte Popolare, ricco di opere religiose e rurali austriache dove siamo andate perché si teneva una mostra sull'atelier di Moda di Emilie Floege, intimissima amica per tutta la vita di Klimt. Elena, sorella di Emilie, aveva sposato Ernst, fratello del pittore. Con Elena e l'altra sorella Pauline, Emilie aveva aperto nel 1904 il Salone di Moda "Sorelle Floege" nella vivace arteria di Mariahilferstrasse. Il Salone ebbe subito grande successo, un indirizzo prezioso per la Vienna che contava, Emilie viaggiava fra Londra e Parigi per portare a Vienna le ultime novità in fatto di tessuti e  l'arredamento dell'atelier in bianco e nero in pieno art nouveau concepito da Hoffmann e Kolo Moser  e realizzato dalla celeberrima Wienerwerstaette aveva lo stesso carattere moderno e rivoluzionario delle  creazioni vestimentarie delle tre sorelle. E poi grazie alle sorelle Floege, una grande novità, per i loro vestiti moderni,  morbidi e dal sapore anche folklorico non occorreva mettere il corsetto, considerato all'epoca necessaria prigione corporea. Il Salone chiuse i battenti nel 1938 e non credo serva dire il perché. 

Della mostra per la verità siamo state deluse, solo qualche racconto e l'esposizione di campioni di stoffe prodotti dall'atelier delle sorelle Floege mentre con Gastone ci aspettavamo di trovare vestiti e modelli, ma tutto il male non viene mai per nuocere perchè  è stata l'occasione per vedere due opere di fine 1700  della collezione permanente del museo: una stufa in ceramica e una scultura lignea di arte popolare che simboleggia il legame per la vita di due persone  sotto l'occhio benedicente di Dio. Queste creazioni non c'entrano un bel niente con la Secessione, ma sono bellissime lo stesso.