mercoledì 31 agosto 2011

quei benedetti "villages perchés"

Peillon
Chiedo scusa anticipatamente, l'argomento non è nuovo, scriverò ancora una volta di "villages perchés", magari è un post da saltare a piè pari, ma cosa ci posso fare se nell'entroterra nizzardo di questi benedetti paesucoli appollaiati su punte di roccia ce n'è una caterva e mi piace scoprirli?  Meno sono turistici e più sorge la voglia di andarci, allergia da Costa Azzurra di massa, le amiche dicono che in realtà sono una snob.
Dopo un luglio con giorni piovosi novembrini, da metà agosto è cominciata la canicola. Prudentemente ed oziosamente con le amiche ce ne restiamo quatte a casa fino al tramonto, si legge, si ascolta "radio nostalgie", si spettegola, si disfa e si rifa il mondo, si gioca a burraco (ho una sfiga maledetta ed è fasullo il detto "sfortunata al gioco, fortunata in amore), poi verso le 5 del pomeriggio si parte alla scoperta.
 
Apparentemente questi borghi sembrano tutti uguali, vicoli silenziosi e deserti, vecchie pietre, angoli segreti fioriti, su e giù per scale e scalini, il municipio, la piazza centrale, la chiesa, il lavatoio, foto d'epoca che mostrano come erano e come sono diventati, restaurati ma rispettosamente salvaguardati nella loro identità.
All'ingresso di ogni  villaggio non manca mai il monumento ai morti, i poilus della prima guerra, quelli della seconda, sulla stele leggo anche i nomi Martial Cirri caduto in Indocina nel 1947, Ubaldo Cirri in Algeria nel 1956; magari erano padre e figlio, magari due fratelli, chissà che storie, dal loro paesello andare a morire in giro per il mondo.
In realtà sono tutti diversi, ognuno ha la sua personalità, delle sue peculiarità. Peillon per esempio sembra appartenere ai gatti, loro, numerosissimi, gli abitanti più in vista. Una signora racconta che ogni anno puntualmente a inizio estate la gente viene e li abbandona qui, il paese si è fatto la fame di protettore dei felini, saranno adottati e sfamati e via col racconto di storie di vite vissute a quattro zampe.
Peille godiamo del sole che scompare, gli ultimi rossori sulle montagne intorno, i lampioni che si accendono, sembra di essere a teatro, il palcoscenico si accende. Nella piazza un ristorantino alla buona di quelli giusti, una coppietta che parla fitto fitto gli altri unici commensali, tovaglia a quadretti bianchi e rossi, menù del giorno tipico di queste parti, farcis niçois, pissaladière, sardine ripiene. Siamo fortunate, il proprietario quel giorno lì è in forma e di buon umore, ci serve sorridendo.
Aspremont, a 550 metri d'altezza, circa 2000 anime che lo abitano, pare che nell'antichità abbia costituito un rifugio sicuro per i liguri e nel Medio Evo divenne un posto di frontiera fra la Francia e il Regno dei Savoia. Meno culturalmente ho notato che mostra vestigia umane "attuali", ci sono panni stesi e qualcuno in circolazione per la strada, poi ha un'insegna bellissima.

Tourrette-Levens infine, nell'antichità punto di controllo della famosa "strada del sale", passaggio obbligato fra il porto di Nizza ed il Piemonte.  Si fa notare per il bellissimo tetto del suo campanile, uno dei due unici triangolari della contea di un tempo, per il suo castello del XII° secolo lassù in cima, per la scultura di certi angeli che suonano fieramente.
Le amiche, tutte rigorosamente bionde autentiche d'origine controllata, pura razza ariana, sorridono, sembrano contente. Non si possono lamentare, certo non saranno "Vacanze romane" con Gregory Peck in vespa, ma francamente le ho scorazzate in giro mica male. 



lunedì 29 agosto 2011

La collina di Cimiez e Matisse


Di Nizza devo aver scritto già diverse volte, ma una città è sempre ricca di storie grandi e piccole, un pozzo inesauribile da cui attingere. Se per andare a Cimiez, la più superba collina di Nizza, non si passa dal centro città ma si fa il giro dalle alture, poco prima del bivio Saint Pancrace-Asprémont si incontra la casa di Ben Vautier, quell'artista originalissimo e superattivo del movimento Fluxus che riconosce come maestro supremo Marcel Duchamp sovvertitore per vocazione di luoghi comuni e certezze consacrate.
Alla sommità del quartiere di Cimiez, c'è il Monastero francescano dove i nizzardi celebrano i matrimoni chic  perché adiacente si trova il giardino,  incredibile al momento di tutte le rose in fiore, perfetto per le foto nell'album ricordo del giorno fatidico. Nel chiostro del monastero apprezzati concerti di musica classica durante la stagione estiva. Incontro seduta sotto un albero questa bellissima signora di 100 anni e virgole (ne compirà 101 a febbraio prossimo). Ha voglia di parlare e fiera di farsi fotografare, racconta di figli e nipoti, ma soprattutto del suo amore per la vita di cui fra musica, letture, rapporti umani, riesce ancora a godere appieno e il suo sorriso lo conferma.
A fianco del monastero uno di quei cimiteri nizzardi che dall'esterno ti sembrano minuscoli, poi invece, addentrandosi, si scopre che sono articolati a balze e vasti come un labirinto. Qui c'è la sepoltura di Matisse, dello scrittore Roger Martin du Gard  e di Raoul Dufy, grande cantore della costa con i suoi quadri.
Nello stesso comprensorio c'è anche un vecchissimo uliveto cui sono molto affezionata, ci passavo dei pomeriggi interi con genitori e bambini da piccoli. Era parte integrante del monastero, poi scorporato e divenuto un giardino a se stante. I suoi viali portano tutti nomi di grandi jazzisti, forse in onore di quel libro Jazz con pensieri ed incisioni di Matisse, forse perché fino a due anni fa  questa era la sede nel mese di luglio di un prestigioso festival del jazz  (trasferito ora nei giardini Albert I). Nell'ambito del festival ricordo ancora una domenica mattina di anni addietro con una messa vivificata dai gospel dei cantanti americani presenti. Il sole ed il vento fra gli ulivi, quelle voci stupende, uno sballo, avevo pianto di commozione per la bellezza e la spiritualità dei canti che salivano fino al cielo blu.
Ed eccola qui tra gli ulivi e adiacente al sito archeologico gallo-romano la villa genovese seicentesca color ocra che ospita il Museo Matisse, adesso visitabile gratuitamente come tutti i musei municipali della città. Di oli del grande Maestro fauve per la verità non ce ne sono molti, solo una trentina, gli altri saranno in giro per il mondo, ma lo spazio è stato recentemente ristrutturato ed egregiamente come al solito.
Di Matisse, inclassificabile come tutti gli artisti con la A maiuscola, non parlo, è un gigante e non ne ho la competenza, ma nel museo si può seguire tutto il suo percorso artistico, dalle nature morte fino ai gouaches ed ai découpages, tanti schizzi e disegni preparatori, i progetti per la cappella del Rosario di Vence, alcune sculture, oggetti e mobili di casa e del suo atelier di lavoro fissati per sempre sulle sue tele.
Doveroso in fondo che qui, sulla collina di Cimiez ci sia un suo museo e la sua tomba. Matisse ha vissuto per quasi 40 anni in Costa Azzurra e dal 1938 al novembre 1954 proprio attaccato al museo, al Regina, palazzo Belle Epoque costruito in origine per i soggiorni vacanzieri della regina Vittoria, poi divenuto condominio di standing. Al terzo piano del Regina l'artista aveva comprato due appartamenti, casa e bottega come si suol dire, tutti popolati di vasi, mobili, piante, stoffe, tinture, voliere, collezioni, ne testimoniano tante foto, ingredienti necessari per il suo bello, per il bello tout court che l'artista è riuscito a creare.

  


domenica 28 agosto 2011

divagazioni su "grazie"

Frigorifero drammaticamente vuoto, pigrissima di cucinare per me  una settimana di yogurt e mele, ma mi raggiunge al mare per il fine settimana il figlio Marco, urge un supermercato. In un certo punto la strada si restringe, la doppia circolazione è difficoltosa, forse mi tocca pure la precedenza, ma non ho fretta, mi sono fermata ed ho lasciato passare. Cinque macchine mi sono sfilate davanti senza un cenno di ringraziamento, non uno. E' stato in quel momento  che ho cominciato la riflessione sulla parola "grazie" e sulla difficoltà  misteriosa della gente di servirsene. Eppure è facile e corta, forse deve essere parola easy per essere memorizzata e pronunciata senza problemi da tutti, solo sei lettere come  in spagnolo e in inglese perché la utilizzano al plurale, cinque in francese e in tedesco lingue notoriamente più pragmatiche, in ebraico addirittura solo quattro, non a caso la mia tribù passa per tirchia.  Tre consonanti, la g e la r mi sembrano molto democratiche e di facile accesso, duretta la z, deve far pesare che è l'ultima lettera dell'alfabeto, ma ci sono due vocali dopo per addolcirla, insomma, foneticamente ci siamo.  "Grazie" appare parola molto modesta, niente a che vedere con escatologico, angone o sfrombolare che se le senti vai in crisi e ti fiondi subito sul vocabolario. Grazie non se la tira per niente, è esplicita anche in silenzio, si accontenta di un cenno del capo o della mano, talvolta può bastare un sorriso. Se qualcuno mi spiegasse perché viene così poco adoperata, gli sarei riconoscente. Attenta a non dirla a vanvera che sennò perde di valore, io ne faccio largo uso, come il sale o il dentifricio, perché ogni giorno porta con se mille occasioni. Ho scoperto che pronunciarla non è faticoso e non mi arreca nessun disturbo fisico, voglio dire che l'epiglottide tiene bene e la mascella maxillo-facciale regge lo sforzo, dalla testa non mi cade nessuna corona e anzi, predispone la gente favorevolmente nei miei confronti; la dinamica è in fondo la stessa della scommessa di pascaliana memoria e della medicina omeopatica, se pronunci la parola magica comunque male non fa e magari ne trai addirittura dei benefici.  Per sapere in quale epoca  l'uso della suddetta  è entrato a far parte del vivere comune nel nostro mondo occidentale ( in India per esempio non si usa, altra cultura altri parametri ) sono andata a consultare "La civilisation des moeurs", un testo chiave di quel pioniere della sociologia che è stato Norbert Elias, allievo di Husserl e Jaspers. Di specifico a "grazie" non ho trovato niente, ma preziosa la riflessione generale che il linguaggio, come tanti altri aspetti di una civiltà,  non è che un indice della sensibilità e del comportamento umano in un dato periodo storico, soglia del sentire in mutazione costante. "Elle montre aussi dans quelle mesure les impulsions de cette évolution proviennent de la structure sociale, des formes humaines d'intégration et de relation". E se per il sociologo l'apparizione più o meno improvvisa di una parola in seno ad una comunità linguistica sta ad indicare un cambiamento di stile di vita nei membri che la compongono, mi domando cosa vorrà significare la sua progressiva scomparsa. 

venerdì 26 agosto 2011

nuovi orizzonti

Che Paperblog non me ne voglia, ne scrivo con affetto, ma questa è una cosa a cui penso da tempo e dovevo finire per dirla e poi è della serie "non prendiamoci troppo sul serio" che non fa male a nessuno. Dunque, accanto ai post pubblicati c'è una rubrica che si chiama Dossier Paperblog, si sottolineano alcune parole che rimandano a ulteriori articoli e approfondimenti possibili. Fin qui tutto bene, l'opportunità non fa una piega, anzi, sia la benvenuta, ma spulciando i post ed andando a guardare più da vicino, le cose si complicano e possono succedere......accostamenti incredibili, aprirsi nuovi ed impensabili orizzonti interpretativi: una mina antiuomo per esempio scaricata in Cambogia si ritrova ad essere catalogata come conduttore TV, credo si pensi a Gianni Minà, forse è una mina vagante pure lui,  ma siccome la vita è fatta di dettagli, un semplice, banalissimo accento fa la differenza e On the road, il mitico romanzo di Kerouac, vessillo di intere generazioni, diventa un programma TV, confesso che un poco mi dispiace. So bene che i giovani curvi tutto il giorno sul computer a smistare la mole di materiale che arriva non c'entrano nulla, anzi, colgo l'occasione per porgere il mio personale ringraziamento per il loro lavoro, mica si può fare tutto a mano, serve l'aiuto del cervellone, quella macchina stupenda, infernale e per me misteriosa, che possiede veramente fantasia da vendere. Si scopre per esempio che  frontiera non è più quello spazio convenzionale che separa un luogo simbolico o reale da un altro, ma un "gruppo musicale italiano", in buona compagnia con la parola declino, che persa la valenza negativa del dizionario si mette invece anche lei a cantare, rigorosamente in italiano. Fanno invece parte dei  "musicisti stranieri" con ugola internazionale Matisse, Bauhaus, Zen e Nirvana. Per Madonna, anche lei nel gruppo appena citato, preferisco non dire niente, la sua omonima ben più importante è un soggetto troppo delicato, siamo nelle alte sfere in odore di santità, meglio non scherzare. Lo capisco, sono nomi particolari ed un po' esotici, secondo me quando vede delle parole strane il cervellone va in confusione e per non saper né leggere né scrivere ci mette "musicisti stranieri" che va sempre bene, ce ne sono talmente tanti in circolazione che qualche volta ci azzecca pure.  Seguendo il filo del ragionamento mi sono poi divertita a stilare una lista immaginaria di soddisfatti e scontenti della loro sistemazione, catalogazioni e statistiche fanno parte del nostro quotidiano e non ne sono immune. Sono certa che le amiche (le mie, quelle degli altri non lo so) sarebbero contentissime di assurgere anche loro alla categoria di "gruppo musicale", almeno sarebbero famose, anche mojito e cuba libre vanno a gonfie vele; loro, riconosciute anche dal cervellone che per la verità dovrebbe essere astemio, se ne stanno al posto giusto fra le" bevande alcoliche". Ho invece dei forti dubbi su medium e Colombo. Discretamente informati, come reagirebbero uno sciamano dagli ampi poteri sovrannaturali o quel Cristoforo grande navigatore e scopritore delle Americhe offuscato dal simpatico tenente americano e relegati entrambi in una "serie televisiva"? Secondo me si incazzano di brutto.  Molto imbarazzante poi la posizione di Wanda Osiris, ma come? la più grande soubrette italiana di tutti i tempi, una regina che scende eternamente le scale avvolta nei suoi boa di struzzo  gorgheggiando con voce soave....ti parlerò d'amor....., lei che meriterebbe una sezione speciale tutta per se, si ritrova fra gli "attori" e per di più con quel brutalone di Fred Buscaglione dalla voce intrisa di sigaretta e whisky che si fa ammazzare in diretta dalla sua piccola, piccola, piccola così? Ma per finire ce n'è uno che a mio parere si sta rigirando senza requie nella tomba e a giusto titolo, ha tutta la mia solidarietà, è Morgan, il più grande bucaniere della storia, il terrore di tutti i mari. Secoli di onorata e famigerata fama per finire miseramente declassato in un battibaleno a "personalità Gossip". Non c'è più religione! Siamo proprio in Italia, musica e televisione nazional-popolare la fanno da padrone, persino il cervellone si è bevuto il cervello.

giovedì 25 agosto 2011

Pierre Bonnard al Cannet: un corpo a corpo con il colore

La Mairie
Grande notizia per gli estimatori del genere: a Le Cannet, sulle alture di Cannes, proprio a fianco dello spettacolare Municipio (in Francia sono sempre curatissimi, ah la grandeur d'oltralpe!) si è appena aperto un nuovo spazio museale, bello, bello, bello, un vero gioiello, il primo ed unico museo Bonnard nel mondo. Era ora, un museo tutto per lui questo artista se lo meritava proprio, in primis perché è un grande, secondo perché al Cannet Bonnard ci ha vissuto dal 1927 (dell'anno precedente l'acquisto della villa Le Bosquet) fino al 1947, anno della sua morte, cittadino dunque del luogo a pieno titolo.
museo Bonnard
Che al volgere del XX° secolo la Costa Azzurra diventi un formidabile focolaio di artisti che con le loro ricerche estetiche rivoluzioneranno la pittura moderna non è una novità. Solo che certi non fanno che passare, mentre altri vi si stabiliranno e penso a Renoir, a Chagall, a Picasso, a Matisse, a Signac, a Bonnard appunto, giusto per citare qualche nome. Bonnard soggiornerà  più volte nel Midi prima di metterci stabilmente le radici. A Saint Tropez già nel 1904 affermerà:  "J'ai eu un coup des Mille et Une Nuits: la mer, les murs jaunes, les reflets aussi colorés que la lumière", eco alle parole del 1891 di Edvard Munch "quand plus tard on réécrira les Milles et Une Nuits le décor n'en sera plus l'Inde, il sera ici".

Un lungo contenzioso giuridico fra gli eredi per le opere dell'artista ha bloccato per anni la realizzazione di questo progetto, che adesso finalmente ha preso il via alla grande con la mostra d'apertura: Bonnard et Le Cannet dans la lumière de la Méditerranée. Da dove incominciare? Sono troppo entusiasta, mi è piaciuto tutto. Per cominciare la sede: l'hotel Saint-Vianney, una delle ultime vestigia dell'architettura Belle Epoque che purtroppo il XX° secolo ha progressivamente smantellato. Abitazione familiare prima,  poi albergo e sede di una banca, l'hotel Saint-Vianney nel 2003 è stato finalmente acquistato dalla Municipalità del Cannet aiutata dal sostegno di collezionisti, istituzioni nazionali ed internazionali, in particolare la Fondazione Meyer e la Phillips Collection di Washington. Degli architetti di Vence hanno lavorato egregiamente, riabilitato la villa storica integrandola con una parte moderna per una sala proiezioni, la boutique del museo e un atelier pedagogico. Proibito purtroppo fare foto all'interno, ma la ristrutturazione è sobria e piena di buon gusto, grande raffinatezza di materiali, pavimenti in ceramica con inserzioni in legno, un uso sapiente del colore sulle pareti che valorizzano ulteriormente le opere esposte. All'esterno un giardino paesaggisticamente raffinatissimo.
 
Osservare poi le opere del Maestro rappresenta un vero "corpo a corpo" con il colore per dirla con le parole di un critico. Bonnard è un sacerdote dell'arte; se è vero che "dans le midi tout s'éclaire et la peinture est en pleine vibration" e che "voir pleinement ne signifie pas voir plus, mais voir sans le savoir", l'artista ricerca ossessivamente quella "difficile semplicità" tanto cara a Goethe, quel "assoluto" che paralizzava la mano del poeta Mallarmé davanti al foglio bianco, quel vero integrale con la sua attualità effimera e la sua memoria duratura, sintesi di concretezza tangibile e inafferrabile sogno.

Ogni mattina, come un rito, prima ancora di fare colazione, l'artista se ne va in giro, "faire provision de vie". Riempie interi taccuini di schizzi ed annotazioni, osserva il movimento del clima e delle stagioni, ogni microscopica variazione di colore, di luminosità, non a caso all'amico Matisse scrive: " mais comme une vision je vois chaque jour des choses différentes, le ciel, les objets, tout change continuellement, on peut se noyer là-dedans. Mais cela fait vivre". Da panteista del bello Bonnard sembra volere godere di ogni scintilla del creato, cogliere tutto, ciò che si vede e ciò che resta misterioso, quella realtà più profonda nascosta nel cuore del visibile, esaltare il colore e semplificare la forma perché "l'oeuvre d'art est un arret du temps. Multiples éclats, ce que les choses sont mais ce qu'elles peuvent devenir dans notre esprit".

Henri Cartier-Bresson: Bonnard à Le Bosquet
Proprio per rendere conto di ogni parcella di realtà ("il s'agira de faire parler les etres et les choses"), Bonnard inserisce nei suoi quadri la visione periferica, una molteplicità di voci con l'obbiettivo dell'unità corale, più punti di vista costitutivi dell'immagine mentale, anticipando il cubismo nel superamento della prospettiva classica. L'occhio dell'artista che guarda sembra  scomparire, protagonista è la superficie che si articola su più piani attraverso un uso sapiente degli specchi che riflettono e dilatano lo spazio visivo, attraverso le finestre e le porte aperte tanto presenti nei suoi quadri, labile ed evanescente frontiera fra il dentro ed il fuori, tra ciò che si vede e ciò che si intuisce, fra lo spazio reale e quello dipinto. "Il ne s'agit pas de peindre la vie, il s'agit de rendre vivante la peinture". Anni fa, nel quadro del mio lavoro in galleria, ho avuto il privilegio di conoscere ed avere una conversazione con Charles Terrasse, nipote dell'artista, che sullo zio ha scritto un'importante monografia e ne è grande conoscitore. Rimasi impressionata dalla semplicità, dalla discrezione e dalla gentilezza del personaggio, mi parve un Grand Monsieur, come dicono i francesi.

Ringrazio Bonnard e questo nuovo spazio che si è aperto non solo per la gioia della fruizione della sua opera, ma anche perché è stata l'occasione per visitare il vecchio borgo del Cannet che non conoscevo, malgrado una frequentazione di quarant'anni della costa. Usciti dall'autostrada, si percorre il lunghissimo boulevard Carnot finendo per puntare dritto su Cannes, il lusso ostentato delle sue boutique e dei suoi alberghi, le mondanità della Croisette, quel lungomare teatro di attori famosi  e starlet di serie B durante il festival del cinema.


A metà di boulevard Carnot invece, bisognerebbe girare subito a sinistra e risalire verso  Le Cannet girando fra i vecchi vicoli, discreti e silenziosi, lontano dalla pazza folla, con i passi che risuonano sul selciato.