lunedì 28 maggio 2012

per la stella di Davide

La grande Sinagoga di via Dohàny
Impensabile per me visitare Budapest e non dedicare un post al mondo ebraico del paese. Lo meritano la bellezza delle sue sinagoghe eclettiche moresche, la visita dell'ultimo ghetto d'Europa, quello di Budapest, che comprendeva 162 edifici situati nelle varie strade intorno alla grande sinagoga, lo suggerisce la vivacità di una grande comunità integrata da secoli nel tessuto sociale del paese, lo esigono, per dovere di memoria e di testimonianza, quelle 560.000 vittime, morte assassinate nel brevissimo arco di qualche settimana, a fine '44, chi per  freddo,  fame,  malattie,  vessazioni, chi nelle "marce forzate, chi gettato nel Danubio, chi ad Auschwitz-Birkenau.

la Sinagoga di via Dohàny
 La presenza ebraica in Ungheria è antichissima, precedente all'arrivo dei magiari; certe pietre tombali esposte al Museo ebraico attinente la grande sinagoga datano del III° secolo, vestigia di quel territorio che era allora la Pannonia romana. Nel corso dei secoli gli ebrei d'Ungheria hanno conosciuto l'alternarsi di periodi di tolleranza e d'oppressione come è successo in tutta l'Europa e finalmente col Compromesso del 1867 (  ovvero l'istituzione della doppia monarchia: l'Impero d'Austria e il Regno d'Ungheria" con le due rispettive capitali Vienna e Budapest) agli ebrei viene riconosciuta l'"emancipazione" e diventano cittadini della nazione che li ospita a tutti gli effetti.
 Secondo un censimento del 1941, la popolazione ebraica in Ungheria contava 825.000 persone, 200.000 nella sola capitale. Tra il 1938 e il 1941 viene varata dal governo  una legislazione antiebraica dal punto di vista dei diritti civili, precettata la popolazione maschile ai lavori forzati; circa 4000 ebrei ungheresi sono morti per le fatiche del lavoro coatto prima dell'occupazione tedesca e un gruppo di 20.000 ebrei stranieri è stato deportato fra luglio e agosto 1941 in Ucraina, a Kamenets-Podolski, dove provvedono all'uccisione le Einsatzgruppen.

Volendo però mantenere la propria autonomia rispetto all'alleato tedesco, il governo ungherese non consente di applicare le decisioni prese alla conferenza di Wannsee per la deportazione e lo sterminio della popolazione ebraica dell'Europa nazista, a Hitler l'Ungheria non "consegna i suoi ebrei" che si sentono in qualche modo salvaguardati.
Nell'aprile 1944, poche settimane dopo l'invasione tedesca del 19 marzo, tutti gli ebrei del paese, tranne a Budapest, sono costretti a trasferirsi in ghetti sotto la sorveglianza della Polizia ungherese che ha sempre fatto più che zelantemente il suo dovere. In maggio iniziano le deportazioni sistematiche verso Auschwitz: 440.000 ebrei distribuiti su 147 convogli  organizzati da un comando speciale sotto la personale guida di Adolf Eichmann. Proprio per "smaltire" questa fiume umano in arrivo dall'Ungheria, i due scali  esterni al campo e vicini alla stazione di Oswiecin non saranno sufficienti e ad Auschwitz si provvederà a costruire una terza rampa di sbarco, le rotaie della ferrovia porteranno il convoglio  direttamente all'interno del campo di concentramento.
Ancora per poco rimarrà solo la comunità di Budapest. Dietro pressione alleata Horthy ordina in luglio la sospensione delle deportazioni e inizia a negoziare con i sovietici nell'ottobre del '44. Molte persone, come il diplomatico svedese Raoul Wallenberg, lo svizzero Carl Lutz e l'italiano Giorgio Perlasca, nonchè le organizzazioni cristiane e la Croce Rossa Internazionale prestano il loro aiuto salvando decine di migliaia di persone.

Prima della firma dell'armistizio, i tedeschi arrestano Horthy e membri del partito filo nazista delle Croci Frecciate provvedendo poi con inaudito terrore all'ultima massiccia eliminazione, quella degli ebrei di Budapest. Il bilancio delle vittime ammonta a 560.000 persone, delle quali 60.000 prima dell'occupazione tedesca e 500.000 prima della fine della guerra. (Ho attinto notizie e dati da schede documentali del CDEC, il Centro di Documentazione Ebraico).
 Eppure gli ebrei ungheresi erano profondamente integrati, felicemente assimilati alla realtà locale, si sentivano "ungheresi", costantemente attenti a mostrare al paese il loro legame patriottico. Lo dimostra per esempio l'interno della Grande Sinagoga, quella di via Dohàny, la più grande d'Europa che può accogliere 3000 persone, restaurata negli anni 90 grazie a fondi privati, in particolare quelli della regina dei cosmetici Estée Lauder nata a New York da una famiglia di emigrati ebrei ungheresi.
Appena entrata sono rimasta colpita dallo splendore e nel contempo ho percepito qualcosa di strano, senza individuarne subito la ragione. E' emerso presto che agli elementi tradizionali ebraici come la luce perenne, i matronei, si accompagnano l'organo, elemento assolutamente insolito, i rotoli della Torah nell' Arca dell'Alleanza posta su un altare  da chiesa, i pulpiti, gli scranni e soprattutto la forma architettonica, non quadrata ma a tre navate e la cupola centrale proprio come in una basilica gotica. Si, sembra di essere in una "cattedrale ebraica" come giustamente si è soprannominata questa sinagoga. Non casuale la scelta dell'architetto da parte degli emancipati ebrei di Budapest, si tratta di un progetto del 1855 del viennese  Ludwig Foerster, gran specialista di chiese.
 Prettamente ungherese,  l'ebreismo "neologo" che ignoravo totalmente, corrente di interpretazione progressista sviluppatasi a metà dell'800 e che sembra rappresentare un altro indice del desiderio di modernità e di integrazione del mondo semitico locale. Annesso alla sinagoga e divenuto ora museo, l'edificio dove è nato il padre del sionismo moderno Theodore Herzl.

 All'aperto, sul lato nord della sinagoga e dopo aver attraversato il giardino centrale diventato cimitero dei martiri,  c'è il Memoriale dell'Olocausto, un Salice Piangente in acciaio e argento opera del 1990 dello scultore Imre Varga; sulle 4000 foglie sono incisi 34.000 nomi. Quei nomi continuano a vivere nel cuore e nella memoria di parenti e amici che sostengono la Emanuel Fondation, sponsor dei luoghi, creata per ricordare il padre da Tony Curtis, l'indimenticabile protagonista con Jack Lemmon e la mitica Marylin di "A qualcuno piace caldo".
Bella anche se vista solo dall'esterno la Sinagoga Ortodossa, straordinaria invece quella moresca di via Rumbach costruita nel 1872 dall'architetto Otto Wagner, insigne capofila della Secessione Viennese. Sono ancora in corso lavori di restauro, ma è possibile l'accesso e ne vale veramente la pena.
Clou finale della prima giornata tutta ebraica  del soggiorno a Budapest con le amiche, il concerto di musica kletzmer e l'ottima cena al caffé Spinoza dove ai tavoli si sentono parlare tutte le lingue, presenti anche molti israeliani. Bella idea del nostro tour operator Gastone averci portato qui, grazie di cuore. Per strada, pattumiera da buttare, un letto sgangherato e una scatola vuota di pane azzimo, siamo proprio in zona ghetto.
Attualmente in Ungheria, soprattutto concentrati a Budapest, vivono circa 100.000 ebrei. Sono preoccupati,  alla peggior crisi economica che il paese attraversa dalla caduta del comunismo si accompagna il pericoloso crescente successo di Jobbik, partito di estrema destra dichiaratamente antisemita e antirom che alle ultime elezioni ha preso il 17% dei voti e l'attuale primo ministro Victor Orban del maggioritario partito Fidesz da posizioni progressiste si è spostato sempre di più in area conservatrice perseguendo una politica di nazionalismo spinto. Il paese è ora  certamente democratico, ma le vecchie paure sono purtroppo sempre in agguato. Le ricordano costantemente quelle scarpe di metallo inserite nel calcestruzzo create nel 2005 da Gyula Pauer e Can Togay  sulle sponde del Danubio proprio vicino al Parlamento, simbolo per eccellenza delle libere scelte di un popolo. Questo Memoriale, profondamente toccante e significativo nella sua drammatica semplicità, commemora quelle uccisioni in massa del '44-45; le vittime dalla stella di Davide appuntata al petto venivano allineate sull'argine del re dei fiumi e fucilate verso l'acqua; molto pratico, nemmeno la fatica di dover seppellire i corpi, il fiume silenzioso sa inghiottire. Il museo dei Diritti Umani a Santiago, Tuol Slang a Phnom Penh, la Topografia del Terrore a Berlino, la Casa del Terrore a Budapest e queste scarpe sulle rive del Danubio: nel mio girovagare non mi toccano solo cose belle e ogni volta si riaffacciano quelle terribili parole di Primo Levi ....ditemi se questo è un uomo.....

giovedì 24 maggio 2012

terrore nero - terrore rosso

Via Andràssy, che collega il centro città con la Piazza degli Eroi, è considerata l'arteria più bella di Budapest, non a caso dichiarata Patrimonio dell'Umanità Unesco per tutti i suoi alberi frondosi lungo i marciapiedi e soprattutto per i maestosi palazzi e residenze che segnano da entrambi i lati il suo percorso. La strada porta il nome del conte Gyula Andràssy, importante statista dell'impero austro-ungarico.
Uno degli imponenti palazzi del viale, il numero 60 per la precisione, è stato scelto  come sede dei propri organi di violenza di stato da entrambi i  due regimi dittatoriali del novecento che hanno segnato la storia dell'Ungheria, le croci frecciate, ovvero i nazisti magiari prima e i comunisti, poi. Lungo il cornicione esterno una fila di volti; le date della morte riguardano i due periodi, il 1944-45 per alcuni per mano dei fascisti tedeschi ed ungheresi e gli anni 45-56 per altri, vittime dei subentrati comunisti.

Di estrema destra o di sinistra, sempre drammaticamente di orrore di stato si tratta e "La casa del terrore" è diventato il nome dell'edificio da quando nel 2002 è spazio espositivo. Questa è stata la sede della redazione di un giornale dell'estrema destra e il movimento nazional-socialista ungherese (il cosiddetto partito delle Frecce Crociate) aveva affittato degli uffici nel palazzo neorinascimentale sin dal 1937; Ferenc Szàlasi, il capo dei nazisti ungheresi, aveva scelto l'idilliaco nome di " Casa della Fedeltà".

Migliaia le persone torturate anche per settimane nelle celle dei labirinti sotterranei del palazzo che non ho voluto fotografare. Quando nel 1945 l'Ungheria viene occupata dall'esercito sovietico, ai nazisti in fuga si sostituisce la polizia segreta comunista, il PRO (Dipartimento Politico di Ordine Pubblico) divenuto poi AVO (Dipartimento per la Protezione dello Stato) e da ultimo AVH. Gli zelanti impiegati avevano potere di vita e di morte su tutto e tutti, tristemente famosi l'apparato terroristico dell'Organizzazione e il suo direttore Gàbor Péter, un ex-sarto. "Quando dalla cantina di via Andràssy 60 venni condotto al primo interrogatorio serio, pregai Dio almeno per un'ora, perché cancellasse i nomi dei miei amici dalla mia memoria" (abate Vendel Endrédy che ha passato 6 anni in cella d'isolamento). Due lastre di marmo, una nera ed una rossa all'ingresso, sottolineano simbolicamente la duplice tragedia del paese.
Sui monitor, filmati d'epoca documentano il duplice orrore: da un lato il genocidio, Hitler con le masse che lo osannano, scene dal campo di concentramento di Bergen Belsen, film di propaganda dei nazisti ungheresi, dall'altro scorrono le immagini dell'Armata Rossa, della firma del patto Molotov-Ribbentrop, delle parate sulla Piazza Rossa, la presa dei criminali di guerra nazi-fascisti e i loro interrogatori in questo stesso palazzo. Anche le sale e i loro arredamenti cambiano, diversi i modi di procedere, sfilano le varie divise delle due dittature e sagome di personaggi chiave, la moquette per terra rappresenta la pianta dell'Unione Sovietica con segnate le città dove venivano deportati gli ungheresi, sullo sfondo foto con il triste ed ostile paesaggio siberiano, nelle bacheche reliquie dagli innumerevoli gulag e dai milioni di morti. "Più scendiamo nella profondità del passato, e meno sono i superstiti; la tradizione orale tace, la memoria si perde nell'oscurità..."   scriverà Solzenitsyn.
Documentata anche la sofferenza dei "kulak", i contadini benestanti della sterminata campagna ungherese. Venivano costretti a consegnare la maggior parte dei raccolti alle autorità dello Stato, prima il versamento obbligatorio e solo in un secondo tempo l'eventuale possibilità di provvedere al fabbisogno della famiglia. Il partito comunista non trovava ripugnante nessun metodo nel suo proposito di distruggere il tradizionale stile di vita delle campagne e di forzare i contadini ad abbandonare le loro terre.
Sui giornali la propaganda scriveva "L'AVH protegge anche i contadini lavoratori", ma Stalin nel '46 aveva pronunciato parole terribili contro il paese da sempre fedele alleato della Germania: "L'Ungheria dev'essere punita in un modo esemplare". Molte anche le personalità ecclesiastiche perseguitate ed imprigionate. Il nazismo, fautore della guerra razziale e il comunismo sostenitore della guerra di classe vedevano, entrambi, un nemico nella religione; in fondo questa opera sulla persona e le sue responsabilità individuali mentre le dittature perseguitano le loro vittime in base a criteri collettivi e qualsivoglia sistema etico-religioso non può condividere i principi delle dittature.

Nella gamma dell'orrore c'è solo l'imbarazzo della scelta: si passa dalle copie degli oltre 800 fascicoli custoditi nell'Archivio Storico dei Servizi di Sicurezza con i documenti dei processi farsa svoltisi dal '45 al '56 alla sala Propaganda, manifesti, giornali, film, tutto costruito a tavolino e tante menzogne. Dietro uno scaffale di dossier c'è una cabina nascosta con una poltrona ed un telefono. Sta a ricordare il sistema giudiziario in atto per cui il processo veniva gestito direttamente dall'esecutivo, in violazione del principio della divisione dei poteri e dell'indipendenza dei giudici (quelli indipendenti erano stati naturalmente epurati), tratto fondamentale di ogni Stato di diritto.

"Non solo custodire, ma odiare!" era uno dei motti del personale dell'AVO negli anni '50 e il concetto risulta chiaro osservando le varie "sale trattamenti" con gli strumenti di tortura e il braccio della morte dove avvenivano le esecuzioni. Nella lunga lista di martiri ricordati nei bui sotterranei mi ha colpito, chiaramente per la sua omonimia, Eva Braun (1917-1945). Nella documentazione del museo scopro che questa Eva Braun ha fatto ben altre scelte di vita: impiegata, militante della resistenza comunista, il 19 marzo 1944, giono dell'occupazione tedesca, scompare nella clandestinità e dirige la stampa della resistenza comunista.Il primo gennaio 1945 verrà catturata e fucilata dai nazisti insieme ad altri compagni.
Il 25 febbraio 1956 nel suo discorso segreto al XX° Congresso del Partito Comunista dell'URSS, Krusciov denuncia per la prima volta i crimini dell'era staliniana e il 23 ottobre di quello stesso anno il popolo ungherese si ribella: "Quello che avevamo ritenuto impossibile-che un popolo potesse abbattere, da solo, uno Stato totalitario-è diventato realtà.", scriverà sulla stampa francese il grande Raymond Aron, ma come si sa entrano a Budapest i carri armati russi e la rivolta viene spenta nel sangue. Solo nel 1989 gli ultimi consiglieri sovietici lasceranno l'Ungheria, un anno prima del crollo del regime comunista.
Fra il rosso e il nero c'è posto per tutti, una lunga, terribile lista di vittime: i deportati nell'Unione Sovietica, i militanti del movimento operaio, i membri della resistenza antinazista, pastori calvinisti, monaci, preti, sacerdoti e persino il vescovo cattolico Vilmos Apor, i caduti della rivoluzione del '56, studenti, militari, politici, intellettuali, gente comune, gli eroi del quotidiano .
A Buda, sulla collina del monte Gellért che sovrasta tutta la città, nel 1947 è stata eretta dai "liberatori" comunisti la Statua della Libertà che doveva testimoniare della fine della guerra e dell'occupazione tedesca; ai piedi della donna, simbolo della vittoria che regge un ramo di palma nelle mani, si trovano due figure, una simboleggia il progresso, l'altra la lotta contro il male. In realtà dovevano passare altri 46 anni perché quel nome "Libertà" assumesse il suo vero significato. Dovevano passare 46 anni perché l'edificio situato al numero 60 del viale Andràssy potesse rinascere, non per torturare ma per ricordare e testimoniare. Per l'Ungheria che è sopravissuta alle due più terribili dittature del '900, dopo decenni di silenzio è arrivato il momento di guardare al proprio passato chiamando finalmente per nome i protagonisti di questa storia, vittime e aguzzini.


martedì 15 maggio 2012

"rosso" a teatro

Per chi abita a Milano una dritta: da non perdere assolutamente  Rosso, al teatro Elfo Puccini, da un testo di John Logan, sceneggiatore di grandi successi hollywoodiani, in cartellone fino al 3 giugno. Erano anni che uno spettacolo teatrale non mi entusiasmava a tal punto e scopro non a caso che Red ha vinto sei Tony Awards nel 2010, incluso quello per il miglior testo teatrale. So poco dell'Espressionismo astratto,  quel movimento pittorico per la prima volta squisitamente americano sorto dopo la seconda guerra mondiale,  sintesi della combinazione fra intensità emotiva e autoespressiva degli espressionisti tedeschi e l'estetica anti-figurativa delle scuole di astrazione europea come il Futurismo, il Bauhaus e il Cubismo sintetico. So anche poco dei suoi più significativi  esponenti come Pollock (sulla cui vita ha circolato di recente un bellissimo film), Willem de Kooning e quel Markus Rothkowitz divenuto Mark Rothko, artisti di cui ho però avuto più volte occasione di vedere le opere in svariate mostre. La creazione teatrale si sviluppa intorno a un episodio della vita di Rothko: la commessa ricevuta nel 1958 da parte dell'architetto Philip Johnson di dipingere una serie di murales per il ristorante Four Seasons nel Seagram Building di New York. Progetto al quale l'artista lavora per più di un anno e al quale poi rinuncerà restituendo i soldi poichè insoddisfatto della futura collocazione delle sue opere costrette a semplice sfondo in una sala da pranzo. L'artista donerà in seguito questi suoi murales alla Tate di Londra dove sono permanentemente installati. In scena nell'atelier dell'artista, Rothko in una magistrale interpretazione di Ferdinando Bruni e il suo giovane assistente-aspirante pittore, il bravo Alejandro Bruni Ocana. La conversazione fra i due offre alla riflessione temi importanti- "pittura ed estetica, etica e spiritualità, istinto- trasformandoli in una materia carica di tensione e ironia. E ci restituisce il ritratto di un uomo egocentrico e vulnerabile, uno dei più grandi pittori-filosofi del '900, contrapposto a quello del suo giovane assistente, emblemi di due generazioni d'artisti" come felicemente sintetizza la locandina dello spettacolo. "Di una cosa sola al mondo io ho paura, amico mio......Che un giorno il nero inghiotta il rosso" dice a un certo punto l'artista. Il nero, con tutta la simbologia che può esprimere, morte, assenza, vuoto, dolore e l'inadeguatezza, quell'insondabile silenzio dell'ispirazione creativa che può tacere davanti alla tela incompiuta osservata per ore e settimane e che attende di essere completata. Chissà, forse la scelta del suicidio di Rothko nel suo studio quel 25 febbraio del 1970 rappresenta l'unica drammatica risposta che l'uomo e il pittore hanno saputo trovare al nero. Nella storia dell'arte innumerevoli sono gli artisti che hanno interpretato il loro lavoro con sacralità, l'arte come un sacerdozio, come una ricerca austera e solitaria e anche Mark Rothko fa senz'altro parte di quella schiera.

venerdì 11 maggio 2012

Merano .....senza sedativi!

Bella bella davvero Merano, "ça mérite le voyage", vale il viaggio come recitano le vecchie guide verdi Michelin. L'occasione dei quattro giorni meranesi è stato lo Yoga Festival (Yoga and Holistic European Meeting dal 20 al 22 aprile) che si teneva nella stupenda sede del Kurhaus, edificio simbolo della città tra il fiume Passirio e i vicoli della città storica.
Nella seconda metà del XIX° secolo, quando il Pavillon des Fleurs è stato costruito con chiari accenti Jugendstil, aveva la duplice funzione di area dedicata alle cure termali per le quali Merano si stava costruendo una nomea internazionale e di spazio di intrattenimento per gli ospiti, con sale riservate al fumo, alla conversazione, alla lettura, a spettacoli e concerti, al ballo e al gioco d'azzardo diventando addirittura un casinò.
Tale l'affluenza ed il successo del Kurhaus che l'architetto Friedrich Ohmann della Secessione viennese ne concepì l'ampliamento con una nuova ala inaugurata a inizio '900, nel 1914 per l'esattezza. Di assoluto pregio l'elegante foyer, l'ampia scalinata, la sala delle feste con la rotonda e la cupola affrescate di leggiadre fanciulle danzanti, le raffinate stuccature, le decorazioni in ferro battuto dorato.
Nel presente le cose sono cambiate: da quando l'architetto Matteo Thun ha progettato le stupende avveniristiche terme tutte vetro, il  Kurhaus risponde solo alla seconda vocazione iniziale e ospita con continuità avvenimenti culturali, convegni, mostre, incontri internazionali, fra cui la seconda edizione dello Yoga Festival, appunto, organizzato da Sabrina Grifeo, responsabile del Centro Yoga di Cultura Rishi di Milano.
Personalmente non ci sarei venuta,  ogni mio tentativo di avvicinarmi allo Yoga è stato fallimentare, probabilmente sono troppo nevrotica e refrattaria, ma Gastone voleva parteciparvi perchè  da anni  "medita" invece con successo e beneficio psicofisico. E' stata una proficua occasione per scoprire Merano e buttare lo sguardo su una realtà olistica di cui so molto poco.

Quante idee, quanti metodi, quante scuole, un universo ricco di pensatori e maestri che attingendo alle antichissime saggezze vedica, induista e buddhista e alle riflessioni che queste hanno suscitato nei millenni, hanno ricercato l'armonia fra corpo e spirito, la consapevolezza del se più profondo e di ciò che ci circonda, principi etici e comportamentali che hanno come sbocco naturale il rispetto della propria persona e degli altri, un equilibrio interiore, mente e cuore aperti.

Mentre un pubblico vario e variegato osserva, assiste ai dibattiti e gira incuriosito fra i banchi di libri, unguenti, proposte di massaggi,  colpisce in effetti l'approccio sorridente ed accogliente dei partecipanti, nell'aria aleggiano la stessa disponibilità umana e compostezza che ho avuto modo di riscontrare in quello che definisco "il popolo del Dalai Lama" durante un suo seminario di tre giorni al Palatrussardi  qualche anno fa a cui per la mia solita curiosità avevo assistito.

Veramente tante  le cose belle da apprezzare a Merano, le passeggiate in primis, linfa e ispirazione per la creatività di celebri pensatori e artisti  da Franz Kafka a Ezra Pound, da Giacomo Puccini a Schniztler e Stephan Zweig e sono solo alcuni nomi.
 Le due stupende ai due lati del fiume Passirio: la cosiddetta "Passeggiata d'inverno" perchè esposta al sole con la Wandelhalle, la passeggiata coperta, un loggiato in ferro battuto, legno e affreschi di Franz Lenhart del primo '900 col padiglione dove un tempo si poteva bere il siero di latte o il succo d'uva prescritti per le cure primaverili ed autunnali in città e la "Passeggiata d'estate" che deve il proprio nome alla quantità di alberi dalle fronde rigogliose e umbratili.
 Dal ponte Romano, il passaggio più antico sul fiume Passirio chiamato impropriamente Romano perchè costruito in pietra solo nel 1617, si snoda la passeggiata Gilf, interessante da un punto di vista botanico per la presenza di numerose piante subtropicali; c'è poi la passeggiata Tappeiner creata e donata alla città dall'omonimo medico e ricercatore, vigoroso propulsore del turismo meranese;
 infine "il sentiero di Sissi", il Sissiweg, suggestivo itinerario che conduce fra " il luoghi meranesi"  di Elisabetta d'Austria e che partendo dal castello di Trauttsmandorff  raggiunge il centro città, fino al parco Elisabetta a lei dedicato.
Bello lo storico  centro città con la via dei Portici necessaria per il passeggio e il commercio in caso di pioggia e neve, costruita nel 1200, il Teatro Puccini di fine '800 che rispecchia lo stile eclettico in voga in quegli anni a Monaco di Baviera, il Duomo, cioè la chiesa San Nicolò interamente in stile gotico, gli eleganti edifici lungo il fiume che attraversa tutta la città e il Castello Principesco, residenza dei Principi del Tirolo dal 1470 in poi, glorioso ricordo dei tempi in cui Merano era la capitale del Tirolo.

Non potevamo certo  mancare di visitare la sinagoga di rito ashkenazita e l'adiacente museo, testimonianza di quel periodo a cavallo fra l'800 e lo scoppio della seconda guerra mondiale in cui la comunità ebraica di Merano, insediatasi con l'emancipazione, era fra le più significative dell'arco mitteleuropeo con un gran fermento di medici, professionisti e albergatori che avevano contribuito allo sviluppo di Merano come centro mondiale di salute e wellness d'élite. 2500 gli ebrei residenti in Tirolo prima dell'uragano nazista, ora la comunità ebraica consta di 45 persone e francamente mi chiedo come riescano, numericamente così esigui,  a mantenere  curati e vivi la sinagoga e il museo.


 Sul mensile Pagine Ebraiche di questo mese ho letto tra l'altro di un calendario molto fitto di incontri, tavole rotonde, eventi, filmati nei prossimi mesi estivi  per documentare ed approfondire la presenza degli ebrei in Alto Adige e il loro ruolo nella società.
Nei percorsi del museo si rispecchiano gli anni fertili e felici e poi quelli drammatici della Shoah. L'8 settembre 1943 la guerra fa ingresso in diretta anche a Merano, le truppe tedesche occupano la città e la deportazione della Comunità ebraica tirolese rappresenta il primo caso di deportazione in ordine di tempo di una comunità ebraica italiana.
 Gli ebrei ancora presenti in città vengono catturati e trasferiti prima a Reichenau presso Innsbruck, poi ad Auschwitz. Alla fine della guerra su 94 deportati, farà ritorno solo una donna, salvatasi perchè in possesso di un passaporto del neutrale Liechtenstein.
Nel percorso museale del Touriseum, interessantissimo museo provinciale del turismo presso il Castel Trauttmansdorf, si documenta riccamente l'evoluzione dell'intera provincia, passata nell'arco di due secoli da povera terra di contadini e spesso emigranti in cerca di fortuna a moderna e ricca stazione turistica, da quell'unica locanda degli esordi Zur goldener Rose con le sue tredici stanze all'ingresso del paese a tutti quei prestigiosi alberghi del presente.
Tante valige e bauli in esposizione, simbolo di una società internazionale in movimento e dallo sviluppo inarrestabile grazie alla straordinaria invenzione della ferrovia e di quel primo treno passeggeri  che nel 1867 attraversa per la prima volta il Brennero. Al Touriseum è esposto un baule super accessoriato per la signora up-to date dell'epoca d'oro che per essere "à la page" in un luogo di cura come Merano deve avere abiti ed accessori per cambiarsi adeguatamente cinque volte al giorno.
C'è anche una valigia senza nome con la stella di Davide e solo un numero impressi sopra di chi sarà costretto a partire senza mai più fare ritorno come Jenny Vogel per esempio, stabilitasi a Merano nel 1891 dove gestisce per anni con successo l'omonima pensione; anche per Jenny Vogel ci sarà un biglietto per Auschwitz di sola andata.

A Merano, da tener presente per anni a venire che prima o poi toccano a tutti, la casa di riposo Burgund.
A parte che è una bella costruzione e in una buona posizione sul fiume, il suo punto di forza consiste però nel fatto che dichiara grande e grosso con un cartello sulla strada che non usa sedativi per i suoi ospiti.  Ne ho visti tristemente tanti di luoghi in cui gli anziani vengono chimicamente "calmati" con delle pilloline; così è sufficiente poco personale per accudirli, così non disturbano, così stanno tranquilli. A quanto pare a casa Burgund succede diversamente ed è una bella notizia.