domenica 18 dicembre 2016

Tel Aviv: il cyber cavallo di Troia

Tutto cambia e nulla cambia; nella precarietà più assoluta del nostro vivere, fa bene qualche certezza, per quanto effimera o irrilevante che sia e da questo punto di vista Tel Aviv è una garanzia, non mi delude mai. All'hotel Prima in Hayarkon street ritrovo  la mia stanza 513 con la sua grande finestra spalancata sul mare, le due mega sdraio sulla spiaggia che per quanto mi concerne dicono la verità, amo Tel Aviv e Tel Aviv contraccambia, i profili delle case Bauhaus del passato o quelle nuove di pacca del presente, i ristorantini trendy a di Giaffa, quei tramonti favolosi che, come recitano le guide,  valgono loro da soli il viaggio, al mercato rapanelli, carote e banchetti di frutta e verdura dagli sgargianti colori. Bellissima sorpresa trovare in via Lilienblum al numero 3 quel chiosco, uno dei primi costruiti a Tel Aviv che fotografavo diroccato tutti gli anni con la saracinesca abbassata , finalmente restaurato e oltretutto fa un ottimo caffè. Sarà un  dettaglio infimo, ma è una bella soddisfazione e c'è tanto di cartello che ne racconta la storia in arabo, inglese ed ebraico.
Dopo il mio recente viaggio in New England e averne visti di stupendi di cui peraltro non ho ancora finito di scrivere, mi è venuto il pallino dei campus universitari perchè ci sono architetture all'avanguardia e vi si respira una buona aria di cultura, arte, confronto e i giardini sono sempre tenuti da dio. Sono così ritornata a Ramat Aviv, quell'area modernissima dove ha sede l'università  che tanto mi era piaciuta sei anni fa. Per le notorie ragioni di sicurezza,  il campus non è aperto come Yale o Harvard ma circondato da inferriate. All'ingresso devi aprire la borsa, mostrare un documento, spiegare perché ci vai, ma una volta dentro, liberi tutti e stiamo parlando di 30.000 studenti che lo frequentano. Davanti all'ingresso una lunga fila silenziosa e composta di studenti arabi israeliani che distribuivano dei volantini che mi sono fatta tradurre: lamentano la mancanza di pari opportunità, il sentirsi cittadini di serie b, chiedono al governo di Netanyahu più attenzione per le loro istanze e per i fratelli di Gaza. Già, la realtà è sempre più complessa di come appare, diversa da quell'isola felice di volti di studenti di tutte le razze e colori che sfilano proprio dietro a loro sul muro dell'attuale installazione della Galleria universitaria d'arte Eugenia Schreiber. Questi giovani forse non ne sono pienamente consapevoli ma hanno comunque la fortuna di vivere nell'unica democrazia dell'area e giustamente esercitano il loro sacrosanto diritto di protestare e far sentire la loro voce in piena libertà. 
Nel complesso della meravigliosa sinagoga del campus progettata da Botta che è anche un Centro Studi dell'Eredità Ebraica, c'erano vari pannelli su Elie Wiesel, scomparso nel recente mese di luglio, con le sue pubblicazioni e molte fotografie. Probabilmente sono in corso delle conferenze su di lui. Non so precisarne le ragioni, ma il personaggio non mi è mai piaciuto fino in fondo e non sono la sola, anche altri e in ben più alte sfere, il regista Claude Lanzmann in primis,  hanno espresso delle perplessità. Credo gli si rimproveri, senza nulla togliere al suo costante impegno di una vita per i Diritti Umani coronato dal premio Nobel per la Pace nel 1986, di essersi impadronito della memoria collettiva della Shoah e di averne quasi voluto essere l'esclusivo testimone e portaparola.
 Con un ritardo di "soli" vent'anni dalla sua pubblicazione, mi sono però messa a leggere la sua autobiografia "Tous les fleuves vont à la mer. Mémoires" (1994 éditions du Seuil) e devo dire che mi ha molto toccata. Proprio nessuna arroganza da "cavaliere senza macchia e senza paura", anzi, lo scrittore si racconta senza celare difficoltà, insicurezze, i tentativi talvolta falliti di essere all'altezza di certe situazioni  umane-storico-politiche; ein Mensch, un uomo insomma, che non nasconde le sue debolezze. Nelle foto lo si vede con vari grandi delle storia, fra cui Ben Gurion, Golda Meir, anche con il Presidente François Mitterand suo amico di lungo corso. A questo proposito ho visto di recente un'intervista di Elie Wiesel: malgrado la lunga frequentazione Wiesel, aveva ignorato, come molti del resto, che Mitterand in gioventù, prima di passare nella Resistenza e presentarsi come lindo socialista aveva collaborato con René Bousquet, segretario generale della polizia di Vichy, uno degli uomini chiave della deportazione degli ebrei durante il regime filo-nazista francese. Nell'intervista televisiva Wiesel racconta del chiarimento fra loro all'Eliseo, del rifiuto di Mitterand di riconsiderare criticamente le scelte del passato e di quell'amicizia durata anni che lui ha bruscamente voluto interrompere senza nemmeno una stretta di mano. Come si fa a stringere la mano a uno che è stato connivente con Bousquet e non ne prende storicamente le distanze manco cinquant'anni dopo?

La prima sorpresa del campus subito fuori dal recinto è stato questa volta l'Auditorium Smolarz che non conoscevo  e la seconda il cyber cavallo che accoglieva all'ingresso i visitatori della cyber conferenza che si teneva in quei giorni. Bellissimo e inquietante il cavallo che per questo ricorda quello di Troia. Formato, come scrivono gli autori, da migliaia di componenti infette da virus di computer e cellulari, l'opera invita alla riflessione: un cattivo uso dei formidabili strumenti oggi a disposizione trasformano l'ambiente virtuale in un luogo ostile e non in un'occasione di libero e positivo confronto. 










  

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