lunedì 16 maggio 2011

MaGa: il Moma del Varesotto

Ma quale Tate, Moma o Beaubourg, non c'è bisogno di volare così lontano, a Gallarate, a soli 30 chilometri da Milano c'è il MaGa e ne vale la pena. Come al solito esagero verbalmente nei miei paragoni, ma a volte ci sono dei veri gioielli dietro l'angolo che mi sembra meritino di essere scoperti e valorizzati. Il  museo offre un ricco e articolato panorama degli orientamenti che hanno animato la scena artistica nazionale dalla metà del '900 ai nostri giorni, dall'arte figurativa del dopoguerra  al naturalismo astratto, dall'astrattismo al concretismo, dall'arte cinetica all'informale, dal concettuale alle correnti postmoderne fino alle tendenze legate al panorama attuale. Nella Collezione Permanente sfilano opere di pezzi da novanta come i futuristi Prampolini e Depero e poi Carrà, Casorati, Fontana, Sironi, Tosi, Guttuso, Migneco, Baj, Morlotti, Cassinari, giusto per citare alla rinfusa qualche nome.
L'occasione della scoperta museale è  la mostra "Alberto Giacometti. L'anima del Novecento", il miglior modo per ossigenare una domenica solitaria e malinconica. Non so quante sue esposizioni  ho già visto negli anni, la Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence per esempio possiede molte sue opere e le espone regolarmente; Giacometti è una mia grande passione, ma questa mostra fatta di sculture, dipinti e disegni provenienti dalla collezione degli eredi, opere di un Giacometti "intimo" nate da un rapporto strettissimo tra l'artista e lo spazio della creazione, è allestita stupendamente (proibite le foto, le ho fatte malamente dal catalogo). 
Oltre alla felice sobrietà dell'allestimento, filmati nell'atelier dell'artista, un calendario di conferenze di grande qualità ( quel giorno la testimonianza della figlia del medico Serafino Corbetta, collezionista e grande amico di Giacometti), l'auricolare che accompagnava la visita era la voce stessa dell'artista, con i suoi pensieri, i dubbi, le perplessità di chi cerca ed è sempre "in cammino", proprio come le sue creazioni. 




"Ho sempre la sensazione della fragilità degli esseri viventi. Ho la percezione che ad ogni istante debbano contare su un'energia formidabile per stare in piedi, istante dopo istante, sempre con la minaccia di crollare. Questo ogni volta che lavoro dal vero."





"I giorni passano ed io mi illudo di afferrare, di fermare ciò che fugge, e corro, corro senza muovermi dal posto in cui sto."



"Tutti hanno bisogno, fatto un viaggio o trascorsa una serata, di raccontarlo. Il fatto di raccontarlo significa già ricrearlo. In fondo tutti fanno arte, fino a un certo livello. Reinventano le storie. Se l'esigenza di conservare le cose è ancora più forte significa che si è più sensibili alla fragilità. "



"Per me la figura umana non è un pretesto per realizzare un bel dipinto o una bella scultura, la tela e la materia sono solo strumenti per cercare di rendermi conto meglio di ciò che vedo."
 " Per me l'arte non è che un mezzo per cercare di sapere come vedo il mondo esterno
 Quando le mie dita dipingono sulla tela, ghiaccio scende nei miei colori. " ( l'artista sosteneva che il grigio è il più bello dei colori perché contiene tutti i colori).

 Mi commuovono l'uomo e il suo percorso, mi commuove la sua opera. Mi commuove l'uomo, perché lontano dai tanti, troppi detentori di verità con la v maiuscola e certezze sbandierate con sconcertante sicumera, condivide le sue difficoltà, i dubbi, la fatica dello sforzo continuo. - le mie ricerche sono opere mancate, sono un artista mancato. Vorrei fare una testa normale, come la vedo, è dal '35 che ci provo, ma non ci riesco- dice di se in un'intervista. E' famoso, mondialmente riconosciuto dalla critica internazionale, eppure procede a tentoni nel precario - un cieco avanza la mano nel vuoto (nel nero? nella notte?), - eppure vive come un asceta dell'arte nel suo studio parigino che è anche la sua casa. Inizia a lavorare verso le quattro del pomeriggio, dopo caffè e lettura di molti giornali, lavora soprattutto di notte. Più che una casa, sembra un antro, il rifugio provvisorio e disordinatissimo di un clochard tra montagne di gesso, le dita sempre impiastricciate di creta, pile di disegni, tentativi di opere sparse qua e là, opere incessantemente distrutte, rifatte, rimanipolate e meno male che il fratello Diego riesce a salvarne qualcuna.

Mi commuove la sua opera che testimonia dell' inesauribile tensione di ricerca, questa esigenza di cogliere l'essenziale, che si confronta con l'inadeguatezza dell'uomo, con le impossibilità dell'artista.  Flaubert rileggeva urlando i suoi testi per cogliere la minima imperfezione formale nella musicalità della frase, il grande poeta Mallarmé si paralizzava davanti al foglio bianco nel tentativo sempre destinato a fallire di raggiungere il suo mitico "Azur", sintesi evanescente di ideale, ansia di libertà, sete di infinito. Gli artisti, certi artisti del '900 in particolare, nell' urgenza creatrice assetata di assoluto, spingono sempre più in là le loro ricerche, ma schiacciati dalla storia e dalla drammaticità di due guerre mondiali, non possono che confrontarsi con la precarietà e l'inadeguatezza della condizione umana. E allora Giacometti, eternamente insoddisfatto, distrugge quello che ha appena creato rinnovando da moderno Sisifo le sue fatiche. Riduce le dimensioni, sempre più piccole, toglie materia, le sue figure risultano sempre più esili, il piedistallo più materico dell'opera stessa perché deve sostenere la fragilità del passo, di quelle gambe incerte, sembra risparmiare sul gesto scultoreo, come questa testa del Padre del 1927, plastica essenziale che più che dire lascia solo intuire, eppure sono pochi gesti significanti, il volto parla.



 Anche nei disegni l'artista persegue la stessa direzione, pochi tratti, sempre di meno, il bianco del foglio occuperà uno spazio sempre più grande, come se l'artista si ritirasse, come se l'uomo accogliesse il silenzio. E' una grande lezione per lo spettatore, perché certo non si tratta di rinuncia, al contrario, la determinazione di provare e riprovare ancora. Rispetto alla ricchezza del colore, delle forme, della materia, del gesto artistico, Giacometti fa un percorso opposto, riduce, semplifica, toglie, elimina, ricomincia ogni volta da capo; le sue amate montagne sono state certamente una grande lezione, la montagna insegna l'austerità e il silenzio, la bellezza essenziale, la difficoltà della salita.  Mi ha colpito scoprire che Fernando Botero, artista per eccellenza  di un'opera "opulenta", ama Alberto Giacometti.

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