venerdì 21 giugno 2013

e a Denver il viaggio finisce in musica


Denver, la "Mile High City" cioè "la città alta un miglio" perché si trova a 1600 m. di altitudine. Denver, capitale del Colorado, ai piedi delle Rocky Mountains con cime che superano i 4000 metri. Denver un tempo luogo di confine, terra di Arapaho e Cheyenne, ora metropoli di due milioni e mezzo di abitanti  con un'altissima concentrazione di lavoratori in ambito governativo, migliaia di impiegati statali, locali e federali. Denver City fondata nel 1860 e che deve la sua iniziale prosperità all'argento, tra gli anni 70 e 90 dell'800 i giacimenti a Leadville e Aspen hanno trasformato poveri minatori in cerca di fortuna in milionari. Purtroppo meno di 36 le ultime ore del viaggio passate a Denver però ricche di emozioni e tante cose da raccontare. Prima tappa: l'appartamento di mio nipote Marco, la vista diurna e non più notturna che si gode dal suo balcone all'ottavo piano, le stanze sobrie ed essenziali proprio com'è lui; tutti ascetici questi giovani cervelloni! Lo stabile però è una figata: hall d'ingresso super chic in boiserie, nientepopodimeno che sala biliardo e piscina per tutti i condomini considerando che il prezzo dell'affitto è modestissimo rispetto a un buco a New York o a Parigi e poi per andare all'università ci vogliono meno di dieci minuti a piedi.


Seconda tappa: la casa di Cheryl e Jere, una villetta poco distante da casa di Marco in fondo a un bel viale alberato di una zona residenziale.


 A parte che non c'era il tempo per andare in un museo (e francamente il Denver Art Museum con i suoi due edifici progettati da Giò Ponti e Daniel Libeskind avrebbe certo meritato)  ma non serviva proprio, più che esauriente visitare la loro magione che da sola potrebbe riempire un mercatino intero, una vera, inesauribile caverna di Alì Babà. Un numero imprecisato di libri, spartiti e strumenti musicali, CD, gatti, cucce per gatti, bicchieri, foto di famiglia e di filosofi, quadri dipinti dal proprietario e non solo; al posto loro farei pagare il biglietto per visitarla e meno male che non sono io a dover fare le pulizie.



Terza tappa: il pranzo. Finalmente niente messicano o americano ma un bel  brunch "dim sum" al ristorante cinese gremito come un uovo, perché era domenica. Ragazzi, assaggia di qua, assaggia di là, un'abbuffata che sembrava il film di Marco Ferreri.  Coi  bastoncini si è difesa bene anche la nonnetta, la mamma di Cheryl, una deliziosa arzilla signora di venerabile età che sorrideva sempre e mangiava a quattro palmenti . Eravamo in metà di mille intorno al tavolo perché c'erano altri membri di famiglia e amici; io ho parlato tantissimo perché in inglese preferisco parlare invece che ascoltare, almeno così capisco.

Quarta tappa: il giro dell'Università, praticamente una città, ma non è certo una novità che i campus universitari americani sono immensi. Viali alberati, (proibito fumare anche all'aperto), tanti palazzi di varie epoche e varie architetture, dipartimenti e istituti delle diverse discipline che si susseguono.  
Tutti emozionati e naturalmente orgogliosi non potevamo certo mancare la Sturm Hall in cui ha sede il dipartimento di filosofia dove lavora Marco alla stanza 264, accanto alla 261 di Jere. Ambiente piccolo ma luminoso che da' sul giardino, non c'è ancora l'accumulo di libri sulle scansie perché ha cominciato a insegnare qui solo il settembre scorso e il sapere, si sa,  richiede tempi lunghi, ma affissa sulla parete bianca quella bella ironia intelligente del grande Giorgio Gaber che non fa mai male.
Come altre volte in America, ricordo per esempio la visita al College Swarthmore nella periferia di Philadelfia e pare sia lo stesso in Australia, la cosa che mi ha maggiormente impressionata   sono state le strutture sportive; sarà che le nostre scuole spesso sono pericolanti o crollano, sarà che i poli di studio dei nostri lidi a parte rarissime eccezioni ne sono completamente sprovvisti, sarà che sogni e speranze di una scuola migliore per i nostri giovani sono duri a morire. 
Quinto tappa: il pub irlandese. Visti a volo d'uccello dal finestrino della macchina il Colorado State Capitol e la Cattedrale, oltretutto il freddo non invogliava certo alla passeggiata pedestre, la nostra meta era l'Irish Snug dove tutte le domeniche Jere va a divertirsi suonando lo strumento che gli gira quel giorno musica irlandese con gli amici. Semplicemente fantastico, chi vuole, entra, si aggrega alla compagnia nella grande tavolata e si mette a strimpellare. Per essere sicuro di non avere sete Jere aveva davanti a se due bicchieri, uno di birra e uno di whisky, salomonicamente scolati in alternanza. Se penso alla prosopopea di certi cattedratici "baroni" italiani, la scena davanti agli occhi quasi non mi sembra vera. Jere è capo dipartimento della facoltà di filosofia, ha pubblicato non so quanti articoli e libri perché nelle università americane non si scherza, bisogna lavorare sodo e bene per conquistare e mantenere il posto che si ha, non basta essere figlio, fratello, nipote, cugino, protetto di qualcuno per vincere un concorso e sedersi in cattedra.

Sesta e ultima tappa della giornata severamente proibita agli animalisti che a vedere tutti quegli esemplari imbalsamati potrebbero avere una sincope: la cena al Buckhorn Exchange, il più famoso e antico ristorante di Denver. Fondato nel 1898 da Henry Zietz, detto "Shorty Scout", famoso cowboy, grande cacciatore nonché il più giovane membro del gruppo di Buffalo Bill Cody. Si possono soddisfare tutte le curiosità in fatto dei più inimmaginabili tipi di carne che in passato sono state gustate da presidenti, reali inglesi e star cinematografiche nonché da figure storiche come Buffalo Bill in persona e il capo indiano Nuvola Rossa, ma un vegetariano come mio figlio Francesco qui sviene. Nella bellissima cornice vittoriana dell'edificio trovano posto, appesi alle pareti, quel che resta di oltre 500 animali e manufatti preziosi dei nativi americani.

Il viaggio negli States è finito, si torna a casa.  Anfitrioni americani, famiglia ritrovata e l'amica Rita sono stati stupendi compagni di viaggio e li ringrazio di cuore, questa parte dell'America poi mi ha proprio entusiasmata, credo si sia capito dai miei post.  Non mostrerò Denver sotto la neve perché l'ho già fatto né la foto di Cheryl e Jere che ci hanno accompagnato all'aeroporto circondandoci del loro calore fino all'ultimo istante perché Cheryl commossa piangeva come un vitello; preferisco chiudere con le due ultime immagini del mio apparecchio fotografico, quelle della responsabile dei bagagli aeroportuali che si pettina sempre con due penne biro infilate nei capelli, come ci ha confermato a vive voce: a lei piace così.  


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