domenica 13 aprile 2014

Haim Baharier: La valigia quasi vuota

Ho già avuto un primo grande Maestro di vita ed è stato mio padre, imprescindibili per la mia formazione il suo amore per me, la coerenza del suo vivere, il suo esempio. Poi nell'arco di una vita qualche incontro importante di quelli che lasciano il segno, ma non pensavo mai che mi sarebbe capitata la fortuna di trovarne un altro di Maestro, mi è successo e si chiama Haim Baharier. 

Che sia ben chiaro, non si tratta di un guru visto che in circolazione fra veri e finti ce ne sono fin troppi, ma di qualcuno che mi fa pensare oltre i sentieri che sono avvezza a percorrere e che ribalta sempre i ragionamenti lasciando intravedere nuovi punti di vista o prospettive; l'orizzonte si allarga, tante certezze erroneamente ritenute infrangibili si trasformano così in dubbi, e i dubbi ho imparato che sono un nutrimento indispensabile per continuare a cercare, per tentare di crescere e non riposare sugli allori. Gli ozi di Capua sono stati notoriamente nefasti per Annibale e i suoi uomini. 

L'ho sentito parlare per la prima volta a un convegno lacaniano alla Biblioteca Sormani nel 2000 e confesso che ho capito ben poco, però mi ha intrigato e poco dopo l'ho ascoltato in una trasmissione televisiva ospite di Gad Lerner mentre dibatteva della necessità di un percorso identitario. Per me la sorpresa di parole nuove e diverse, parole che trovavano un'eco nel mio profondo, non so bene cosa, ma qualcosa ha fatto tilt nella mia mente e ho avuto voglia di saperne di più e di partecipare alle sue lezioni. Da allora sono passati 14 anni e non ho più smesso, lezioni private in gruppi ristretti e lezioni pubbliche affollatissime in vari teatri cittadini, i suoi interventi a convegni e interviste; nelle lezioni il punto di partenza è di solito la lettura e il commento di un passaggio dell'antico testamento secondo la tradizione ebraica, ma poi l'interpretazione apre innumerevoli finestre e trovano spazio riflessioni sull'uomo, sulla vita, sul nostro mondo attuale, sull'etica. Da ogni incontro porto sempre a casa uno spunto su cui riflettere, una consapevolezza acquisita di domande che restano tali perché soprattutto sui grandi temi non ci sono risposte prêt-à-porter e nel contempo la consapevolezza dell'importanza di porsele comunque certe domande.

L'occasione per scrivere queste cose me la offre l'uscita recente per i tipi della Garzanti del suo quarto libro, "La valigia quasi vuota". A scanso di equivoci dico subito che leggerlo non è una passeggiata, i suoi libri non lo sono mai, piuttosto una scarpinata in montagna: sarà che la lettura della Torah, se è autentica, dovrebbe far venire il mal di pancia per tutte le riflessioni che suscita e dunque per estensione tutti i libri che si e ci interpellano hanno il dovere di non essere "rilassanti", sarà che è quello che Pavese definiva "il mestiere di vivere" a non essere semplice, sarà che il mio Maestro dice spesso che alle scorciatoie preferisce le "allungatoie", le prime sono certamente più comode e veloci ma non necessariamente le migliori. 
"La valigia quasi vuota" appartiene a Monsieur Chouchani, un personaggio per lo meno enigmatico realmente esistito apparso misteriosamente nella Parigi del dopoguerra fra i reduci dai campi di sterminio e poi altrettanto misteriosamente scomparso. L'aspetto fisico è quello di un barbone trasandato e maleodorante, ma la statura culturale ed etica dell'uomo è talmente immensa da godere della considerazione e dell'ammirazione dei più grandi scienziati e accademici del tempo, lui dal sapere enciclopedico ferrato in ogni disciplina a cui vengono offerte tutte le cattedre universitarie, lui poliglotta che parla perfettamente non so bene quante lingue e che secondo l'autore ha avuto il grande merito di ridare consapevolezza e dignità collettiva a quella specie di armata Brancaleone che di ritorno miracolosamente dai lager si è ritrovata a Parigi per cercare, se è mai possibile, di nuovo un senso, per tentare di reinventarsi una vita, "un'accozzaglia di individui che in apparenza facevano popolo ma che in realtà vivevano e morivano senza socialità..." .  Monsieur Chouchani un bel giorno se ne andrà via con tutti i suoi misteri, lasciando poche briciole dei suoi straordinari saperi e la sua " valigia quasi vuota" a casa dei suoi ospiti,  non certo vuota di significati ma comunque difficile anche lei da decifrare nei suoi scarni contenuti. Baharier ci dà però una chiave: "Chouchani non va interpretato troppo, è la sua stessa vita che ci insegnava e ci insegna".
E nel libro oltre a Monsieur Chouchani e a quella particolare Parigi degli anni cinquanta-"Al Marais, ho afferrato che non soltanto l'uomo Chouchani ma anche l'ambiente che lo accolse, e lo evocò, reclamavano testimonianza."- si snodano i frammentati ricordi dell'autore allora bambino, quelle sere del venerdì in cui si ritrovava spesso a casa fianco a fianco dello strano invitato, le prime sfide della vita a scuola e con certi compagni, il rapporto austero con i genitori che faticano entrambi a esternare l'amore, gli studi talmudici, lo sforzo dell'insegnamento ermeneutico intrapreso nel corso degli anni: "Da anni insegno e da ogni lezione spremo imperterrito il significato ultimo da offrire agli allievi."  Un'alternanza di flash del passato e del presente filtrati attraverso le riflessioni maturate lungo il percorso di una vita.
Chi pensa che sia una storia prettamente ebraica, secondo me si sbaglia di grosso, perché Monsieur Chouchani, emblematico nei suoi contrasti amplificati, incarna per eccellenza quella "claudicanza"' come la definisce l'autore, che appartiene a tutti gli uomini senza distinzione; quella faglia dell'imperfezione, quell'ineludibile precarietà retaggio comune  da assumere con fierezza e non da subire passivamente, da risolvere in positivo come una molla per far fronte alla vita e dare responsabilmente senso al cammino: "La claudicanza la considero una condizione comune a tutto il genere umano; a imitazione non dell'imperfezione ma della perfettibilità, intesa come percorso." "La chiave della claudicanza è qui, affondare goffi nel terreno per librarsi nei cieli con dignità".
      


Chi ha la curiosità di approfondire l'argomento, può guardare il sito

http://www.lavaligiaquasivuota.it/ 

con il monologo-riflessione dell'attore Filippo Timi.

1 commento:

  1. Grazie, Sara, per il bellissimo omaggio al tuo maestro. Scommetto che leggendolo ha versato una lacrima di commozione. Io confesso di non sentirmi all'altezza, o degna, di affrontare la lettura di questo romanzo-biografia-saggio filosofico, e preferisco affidarmi all'onda delle tue reazioni e riflessioni che mi arrivano più direttamente e chiaramente. E' come se lo leggessi col cuore, attraverso i tuoi occhi e il tuo cervello. Ne parleremo estesamente in occasione del nostro prossimo incontro.
    Nel frattempo è ricominciata la stagione musicale dalle mie parti e spero vivamente che vorrai farci il regalo della tua presenza a qualcuno dei concerti - il primo dei quali sarà sabato 26 aprile - molto presto.

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