venerdì 29 giugno 2012

la residenza dell'ultimo Doge

Codroipo, l'antica Quadruvium, ha una storia antica, qui si incrociavano la strada che da Oderzo portava ad Aquileia e quella voluta dall'imperatore Augusto come collegamento verso il Norico. Codroipo è stata anche eletta a luogo di residenza dal patriziato veneto e friulano che a partire dal tardo Cinquecento ha costruito dimore sontuose in cui conciliare l'otium e il negotium nello scenografico sfondo di parchi dagli alberi secolari, templi, laghetti e statue mitologiche. 

Villa Manin di Passariano, oggi sede espositiva di iniziative artistiche, per imponenza e monumentalità interne ed esterne con i suoi saloni affrescati nel corso di tutto il Settecento da artisti del calibro del francese Luis Dorigny, la cappella di Sant'Andrea con sculture e altari di Giuseppe Torretti, maestro del Canova in un trionfo di stucchi rococò, il suo parco, concepito su modello di Versailles, rappresenta senz'altro l'esempio più significativo dell'area e di quel periodo storico.
 Non stupisce che Villa Manin sia stata la residenza estiva dell'ultimo doge di Venezia Lodovico Manin e che vi abbia soggiornato due mesi Napoleone con la sua Giuseppina fino a firmare come ciliegina finale della sua prima vittoriosa campagna d'Italia il 17 ottobre 1797 quel trattato di Campoformio che sancisce la fine della Repubblica Veneta. Purtroppo dispersi nei secoli tutti gli arredamenti della villa, si conserva solo l'arredamento completo di una camera da letto di epoca direttorio detta appunto “di Napoleone”.

Attualmente si tiene qui la mostra Realismo Socialista Cecoslovacchia 1948-1989. Non mi sarei certo fatta 400 chilometri da Milano per vedere un'esposizione su tale tema, ma sono ospite a Grado di Gastone, Codroipo diventa allora a un tiro di schioppo e soprattutto è l'occasione per visitare per la prima volta Villa Manin. 


Devo dire che al di là di ogni aspettativa, ho trovato la mostra molto interessante e ricca di preziosi supporti informativi. I nomi degli artisti mi sono tutti sconosciuti, per esempio Adolf Zàbransky, Vladimir Suchy, Josef Bohàc, Sep Schneider, Bedric Holàcek, ma le loro opere rappresentano una significativa testimonianza dei valori, degli ideali e delle preoccupazioni del Partito e di quei quarant'anni di storia;
 il mondo del lavoro, con protagonisti fabbrica e macchinari, le campagne convertite alla coltivazione intensiva e sfruttate malamente, soprattutto infine la rappresentazione dell'uomo nuovo, il contadino e in primis l'operaio, eroi e pilastri del quotidiano, chiamati all'edificazione della nuova luminosa società socialista. La seconda parte della mostra propone le creazioni ispirate dalla e alla Propaganda, strumento cardine di tutti i regimi totalitari.

 Fra le regole artistiche cui gli artisti devono attenersi, colpisce il gigantismo, rappresentazione formale ed esaltazione delle varie attività lavorative attraverso la gigantografia dei personaggi, tecnica espressiva di stampo classico ma particolarmente praticata nella Germania hitleriana e nella Russia staliniana non certo per fini estetici. La maggior parte delle opere veniva commissionata direttamente dallo stato e diventava strumento di propaganda e funzionale al potere attraverso la sua carica simbolica e poiché esposta nelle fabbriche, nelle scuole e negli uffici pubblici. Sia nelle rappresentazioni eroiche dei primi decenni ( anni 40- 50-60 ) quando è alta la tensione ideale e viva la speranza di un futuro radioso che sembra dietro l'angolo, sia nella disillusione delle opere dei decenni successivi in cui la propaganda non inganna più nessuno, emerge drammaticamente l'anonima rappresentazione degli uomini che spesso dai contorni imprecisi o dallo sguardo vuoto risultano senza individualità, senza specificità personale.

 Giustificato nella sua esistenza in vita dalla fabbrica, è l'uomo agli inizi lo strumento necessario, la macchina più importante ma ridotto quasi a manichino meccanico non esprime mai la sua umanità; uomini e macchine sembrano fondersi, talvolta il profilo umano è una semplice macchia di colore dai contorni imprecisi, simbolo e muto testimone di un sogno rivelatosi impossibile e di un'alienazione collettiva. In questa progressiva disumanizzante spersonalizzazione anche l'autore del quadro o il titolo dell'opera perdono il loro senso e non hanno in fondo più alcuna importanza come sembrano suggerire i molti autori anonimi e le tele senza titolo.

Interessante anche una sezione di fotografie della mostra dedicata alla Spartachiade, storica denominazione data a un grande raduno sportivo tenutosi a Mosca per la prima volta nel 1928 in ricordo dello schiavo Spartaco capo di una rivolta contro l'antica Roma. Il termine è stato poi utilizzato per intitolare manifestazioni sportive le cui finali si svolgevano a Mosca ogni quattro anni. In Cecoslovacchia invece avevano luogo ogni cinque anni. Questi eventi sportivi coinvolgevano migliaia di ginnasti e ballerini che eseguivano esercizi complessi accompagnati da musiche folkloristiche e inni del regime.

La visita finale allo strepitoso parco di Villa Manin rasserena le cupe riflessioni suscitate dalla mostra.
Con la sua opera “Twister” del 2005 l'artista Patrick Tuttofuoco, che vive e lavora a Berlino, figura innovativa nel panorama della nuova generazione di artisti italiani,  gioca con prospettive, forme e colori invitando lo spettatore ad interagire con l'opera e con la distesa di alberi, prati e statue antiche circostanti. Passeggiando nel parco, mentre le gambe vanno cambiando di volta in volta il punto di osservazione, davanti agli occhi dell'osservatore la stessa struttura muta e si alternano cerchi, triangoli, ovali, forme sinusoidali.


Che bella e serena ventata di aria fresca regala questa creazione !!!!!!!   

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