domenica 8 febbraio 2015

"Giorno della Memoria" e dintorni

Una pausa di silenzio e riflessione dopo un periodo di bombardamento mediatico culminato nel fatidico 27 gennaio con tutte le commemorazioni ufficiali e non. Articoli a mai finire sulla stampa, trasmissioni televisive, nuove pubblicazioni di libri, film, dibattiti, video, documentari storici, interviste, testimonianze, un'abbondanza di materiale che per avere un senso non si può solo consumare frettolosamente e inghiottire, ma pretende di essere pensato e ripensato, masticato, rielaborato, un bolo dai tempi lunghissimi. Alla sottoscritta è successo proprio come al pitone che divora tutta intera in un attimo la sua preda, ma poi ci mette più di 132 ore per smaltire all'interno del suo corpo anche solo un minuscolo topo. Magari mi sbaglio, ma l'impressione è che progressivamente negli anni degli avvenimenti di quella data si parli e si scriva sempre di più, forse la distanza temporale permette di sfiorare l'argomento senza bruciarsi,  sarà che i testimoni stanno scomparendo e la loro voce non risuonerà più viva e diretta, sarà che negazionisti e revisionisti sono sempre in circolazione, sarà che l'ignoranza della storia recente regna ancora sovrana, sarà che l'attualità politica internazionale rivela drammaticamente ogni giorno che il passato non passa mai e non a caso in un articolo del Corriere il giornalista Jesurum propone di sostituire il "mai più" tanto in voga nei discorsi per la ricorrenza con una nuova domanda: "perché ancora?". E forse non è politically correct scriverlo ma mi è capitato persino di pensare che questa volta le vittime del supermercato kasher di Parigi abbiano avuto la "fortuna" di essere assassinate in concomitanza con i giornalisti della redazione di Chalie Hebdo, hanno avuto così diritto anche loro a quella straordinaria manifestazione di solidarietà che ha attraversato tutto il paese, persino a cartelli con su scritto "Je suis Charlie, je suis musulman, je suis juif". L'ho pensato perché anche oggi mentre ho iniziato a scrivere questo post si è sparato a tre agenti di guardia davanti alla sinagoga di Nizza, perché la lista di attentati antisemiti in Francia è lunga, molto lunga, per esempio quei tre bambini morti il 19 marzo 2012 davanti all'ingresso della scuola a Tolosa, eppure non mi risulta che a parte dichiarazioni ufficiali abbiano suscitato particolari reazioni ed emozioni collettive. E chi manifesta mai per Israele che vive sotto il pericolo costante di attentati quotidiani? Io non sono Charlie, sono allergica a proclami ed etichette, ma se proprio devo averne una vorrei che sopra ci fosse scritto semplicemente "uomo" un sostantivo di tre vocali e una consonante, se almeno su questo fossimo tutti d'accordo, potrebbe bastare e avanzare. 
Il dibattito sull'utilità o meno del Giorno della Memoria si ripresenta puntuale ogni anno: credo abbia ragione chi pensa alla sterile rievocazione di un giorno, celebrazione fossilizzata nel passato e non progettualità proiettata nel futuro, ma ha altrettanto ragione chi lo interpreta come momento privilegiato di riflessione collettiva, opportunità di approfondire una storia che non si conosce mai abbastanza; personalmente vivo la commemorazione del 27 gennaio come un'occasione e tutto dipende dall'uso che se ne fa; mi sono sentita arricchita dalle varie proposte di quest'anno che ho seguito.
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Domenica 18 gennaio 2015 ore 20.30 al Teatro Franco Parenti di Milano – Sala Grande
l’anteprima italiana del pluripremiato L’uomo per bene. Le lettere segrete di Heinrich Himmler, di Vanessa Lapa. Introduce Andrée Ruth Shammah. Intervengono la regista Vanessa Lapa e lo storico David Bidussa. 
Il 6 maggio del 1945 i soldati dell’armata americana occuparono la casa di famiglia degli Himmler a Gmund, in Germania, dove furono scoperte centinaia di lettere private, documenti, diari e fotografie.
Dalla lettura di questo materiale è nato un film che svela i pensieri nascosti, gli ideali, i piani e i segreti del comandante delle SS, l’architetto della Soluzione Finale Heinrich Himmler. Il tutto grazie a rarissimi filmati, spesso mai visti prima, tratti da 151 fonti di 53 diversi archivi dislocati in 13 paesi del mondo, come il Bundesfilmarchiv Berlino, il National Archive Maryland, lo Steven Spielberg Film and Video Archive presso l’USHMM Washington e molti altri.
Il girato è stato interamente restaurato, sonorizzato, montato seguendo il fil rouge delle lettere di Himmler e mostrando allo spettatore come “la crudeltà e il male possano emergere e svilupparsi da un’apparente normalità”.
Qualche mese fa avevo comprato il libro e ho molto apprezzato il film documentario che ha richiesto 9 anni di lavoro alla regista per la verifica di autenticità dei documenti, la traduzione e la contestualizzazione storica di tutto il materiale fortunosamente ritrovato. Nel film non una parola aggiunta o di commento: i testi che accompagnano la visione dei filmati sono rigorosamente e cronologicamente tratti dall'epistolario e dai diari trovati. I filmati provengono da archivi storici e video girati per lo più in frangenti di vita familiare privata. A fine film la regista ha raccontato di essere stata grandemente aiutata nel suo lavoro di ricerca dalla scrittrice e politologa Katrin Himmler pronipote di Heinrich poiché nipote di Ernst, l'apolitico fratello più giovane del gerarca nazista. Più volte sollecitata dalla regista, Gudrun, la figlia di Heinrich Himmler, ha sempre rifiutato ogni incontro preferendo aiutare gli ex-nazisti in difficoltà, mentre Katrin ha fatto ben altre scelte di vita, si è sposata con un ebreo israeliano e da anni ricostruisce attraverso i documenti la storia della sua famiglia, una storia doverosa, per quanto terribile.

http://archiviostorico.corriere.it/2006/luglio/16/Himmler_ritratto_famiglia_con_delitti_co_9_060716034.shtml 
http://archiviostorico.corriere.it/1998/aprile/19/figlia_Himmler_non_tradisce_aiuta_co_0_980419871.shtml

Nessun filmato cruento, nessuna scena impressionante, la cronistoria di un marito e di un padre amorevole. Un film che sa dire l'orrore senza dire e senza mostrare. Del campo di Dachau dove una domenica "papino" ha portato in gita l'amata figliola, sullo schermo si vede solo una parte, quella presentabile, con i prati fioriti e la tavola imbandita e Gudrun nel suo diario scriverà che a quel picnic si è mangiato "un sacco" ed è stata davvero una bella giornata.
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E una volta ancora sono tornata al Binario 21, il Memoriale della Shoah, ma questa volta non ho voluto andare in giro da sola, mi sono aggregata a un folto gruppo accompagnato dalle spiegazioni semplici e ricche di umanità di Pia Jarach, una delle volontarie che ha scelto di fare a ritroso, insieme a tutti coloro che vogliono conoscere, il percorso di questo luogo e della sua storia. Il Memoriale si trova in via Ferrante Aporti e vedendo tutti quei tubi d'irrigazione sullo spelacchiato manto verde del viale, mi è venuto da pensare a Israele dove i tubi la fanno da padrone su una terra che era solo deserto.

Non una burocratica lista di numeri, ma 774 nomi e cognomi riempiono tutta una parete lungo il binario, coloro che sono partiti il 6 dicembre 1943 e il 30 gennaio '44, il carico umano di solo due "partenze"da Milano, due delle altre 13 avvenute fra il '43 e il '45. 27 nomi sono scritti in arancione, appartengono ai sopravvissuti che hanno fatto ritorno. Sui due lati di un lungo corridoio una serie di pannelli esplicativi: da una parte la "Storia" con la S maiuscola a partire dall'iniziale detenzione nel carcere di San Vittore dopo i rastrellamenti, dall'altra, "persone e storie" di straordinaria follia di gente ordinaria.   


Per  Liliana Segre e altri instancabili e preziosi testimoni come lei, questo luogo non ha valenza museale, è storia vissuta sulla pelle, la "sua storia" partita bambina dal quel binario milanese il 30 gennaio 1944 per un'ignota destinazione che scoprirà poi chiamarsi Auschwitz. Ma io, spettatore del 2015, più del binario, più dei vagoni bestiame, più di quella luce che si apre sull'esterno e che non porta verso la luce ma "verso il nulla", "verso il fondo" come scriveva Primo Levi, mi sono sentita interpellata soprattutto da quel muro di cemento all'ingresso su cui c'è scritta la parola INDIFFERENZA. E' l'indifferenza secondo Liliana Segre la "quintessenza" del motivo che ha reso possibile ciò che è divenuto possibile, è l'indifferenza sempre in agguato, anche quella che nel quotidiano  inchioda ognuno di noi a responsabilità di attenzione e partecipazione disattese ogni volta che affrettiamo il passo invece di fermarci. E' talmente più comodo far finta di non sentire e non vedere. Il Memoriale si propone difatti non solo come luogo di commemorazione, ma anche come "uno spazio per costruire il futuro e favorire la convivenza civile, un Luogo di studio, ricerca e confronto per chi c'era, per chi c'è ora ma soprattutto per chi verrà" come si trova scritto sul prospetto di presentazione. 
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Al Centro San Fedele, la trilogia- video proposta da Raul Gabriel, all'inizio mi ha fatto incazzare. Come di fronte a  molte opere contemporanee non capivo, mi sono sentita disarmata e presa in giro, l'impressione che non succedesse nulla, solo una faticosa ripetitività . La metropolitana non appare, nel primo filmato l'obbiettivo fisso e immobile si concentra su una bicicletta bianca incisa o dipinta sul finestrino, non so, e dietro scorre sfumato il paesaggio della periferia berlinese. Poi è scattato un clic, in qualche modo ho mollato gli ormeggi  accettando di salirci anch'io su quella  metropolitana e la prospettiva è totalmente cambiata: quella bicicletta bianca e anonima era di tutti e per tutti, tutti quelli che accettavano di fare questo viaggio "in avanti" nello spazio dell'oggi, ma "all'indietro" nel tempo della memoria individuale e collettiva con l'eco in sottofondo del declamare isterico dei discorsi del regime e la musica suadente di Lili Marlene.


Back to Berlin
opera video di Raul Gabriel
Auditorium San Fedele, Via Hoepli 3a 27 gennaio,  18.30
La memoria di Israel è come una vecchia ebrea isterica. Più cerchi di zittirla, più urla. Se invece la memoria è ‘lasciata a se stessa’, celebrata ricorrenza dopo ricorrenza, viene sospinta verso l’emarginazione protettiva, lo zoo delle diaspore ingabbiate, il ghetto del rimosso e del celato. La memoria senza interpretazione sancisce lo stupro dell’intimità, il decreto di trasparenza assoluta, la nudità imposta. Haim  Baharier
Back to Berlin è una trilogia composta da tre opere video. Tutti e tre i video sono stati girati in tempi diversi nei treni della metropolitana di Berlino. La trilogia, che prende il titolo dal primo video, Back to Berlin, nasce dalle potenti sensazioni che ho avuto a Berlino, e catalizzate in maniera singolare da alcune improbabili serigrafie sui vetri del metro. Apparizione di quanto il marginale sia in grado di essere depositario dell'intangibile. Quella metropolitana è stata come una porta che ha  connesso istantaneamente l'insopportabile, cosi evidentemente presente e cosi oscenamente negato a volte proprio dove sembra sia celebrato. Raul Gabriel

Dopo la proiezione interverranno, oltre all'artista:
Haim Baharier, matematico, psicoanalista, studioso di ermeneutica biblica e del pensiero ebraico
Pierangelo Sequeri, teologo, scrittore e musicista italiano   

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Esperienza straordinaria lo spettacolo "Avanim" (Pietre in ebraico) al Piccolo Teatro Studio e qui di seguito la locandina:

ORTO-DA Theatre Group è nato nel 1996 da sei mimi attori, specializzati nel teatro di strada, alla ricerca di un nuovo linguaggio espressivo. La loro ricerca mirava ad armonizzare le radici culturali del teatro di tradizione (“Orto” inteso come la radice di ortodosso) e allo stesso tempo ad esplorare nuovi territori dell’arte teatrale (“Da” come Dada). Inoltre, sempre in ebraico, il termine rimanda ad altri due concetti: Or significa luce, Toda vuol dire grazie. In queste radici etimologiche risiede la chiave del lavoro della compagnia, i cui componenti portano in scena una fusione post moderna di mimica corporea, clownerie con un tocco “dark”, danza e visual art, creando in questo modo uno stile unico e di grande immediatezza, che raggiunge il pubblico oltrepassando qualsiasi barriera linguistica e culturale.
Per Avanim, gli ORTO-DA si sono ispirati al monumento scolpito da Nathan Rapoport alla memoria delle vittime dell’Olocausto e dei resistenti del Ghetto di Varsavia e posto nel 1948 all’ingresso del Ghetto. Truccati sorprendentemente, in modo da rappresentare le figure del monumento stesso, gli attori, all’inizio immobili come pietre, si animano gradualmente sino a prendere vita. Proiettati nel 21° secolo, i personaggi intraprendono un viaggio intimo nelle coscienze e nel tempo, un viaggio poetico, nelle menti e nelle memorie, nel presente e nella storia.


In Israele e nel mondo ebraico diasporico   ha spesso suscitato diffidenza qualunque tentativo artistico abbia cercato di "affrontare diversamente" e non con la dovuta austerità l'argomento Shoah; delicatissimo scrivere, dire, rappresentare senza ferire le corde più intime di molte, troppe persone.  Con fantasia e grande poesia lo spettacolo " Avanim-Pietre" ci riesce alla grande. Quel bassorilievo dell'artista Rapaport fatto poco dopo la guerra per ricordare il primo e più grande tentativo ebraico di resistenza organizzata armata, quei 28 giorni eroici ( 19 aprile-16 maggio 1943) in cui gli abitanti del ghetto di Varsavia  senza mezzi e in condizioni drammatiche hanno tenuto testa ai nazisti, si scompone progressivamente dalla sua fissità scultorea, si anima e prende vita. In assenza di parole ma con invenzione, colore e sapiente arte mimica  i sei attori riescono a dare una nuova luce fatta anche di gioco, ironia e speranza a simboli e riferimenti solo negativi della Storia. Non lo scriveva Whitman che "la poesia salverà il mondo"?


Nel gioco scenico le stelle gialle appuntate ai petti si trasformano in un sorriso  o in acquiloni che volteggiano liberi, improvvisi fiori rossi spuntano nelle mani, i fili spinati diventano le corde da suonare di un'arpa e il dittatore è in fondo solo un manichino che si può far saltare a piacere di qua e di là.
   

               

domenica 18 gennaio 2015

sempre d'amore si tratta....

Francamente credevo di aver proprio finito la serie di post su Israele 2014, esaurite le idee, le cose da raccontare, le foto che mi avevano particolarmente intrigato in quest'ultimo soggiorno e poi inaspettatatmente mi arriva un nuovo input. Dopo "Tel Aviv. La città che non vuole invecchiare" (Feltrinelli), un testo del 2009 di Elena Loewenthal di cui ho già avuto modo di parlare in passato, ecco che l'amica Eva mi propone la descrizione vibrante e appassionata della città  da parte di Tobie Nathan. Il nome dell'autore non mi giunge nuovo, con un cognome identico al mio e un titolo così intrigante "Philtre d'amour" (Odile Jacob 2013) non avevo potuto fare a meno di acquistare il suo libro visto per caso su un banco in libreria a Parigi. E poi e comunque sempre di amore si tratta: in "Filtro d'amore" questo professore universitario di etnopsicologia indaga sulle dinamiche del più antico sentimento del mondo, ovvero la passione amorosa, in "Tel Aviv ou la passion des marges" postfazione al libro "Tel Aviv sans répit" di Ami Bougamin (Editions Autrement 2009)  è questione delle emozioni che sa suscitare quella città bianca sulle rive del Mediterraneo.

 https://tobienathan.wordpress.com/cosmopolitiques-savoir-et-politique/%E2%80%A2-tel-aviv-ou-la-passion-des-marges/

giovedì 15 gennaio 2015

il benefattore

Gli ultimi giorni passati a Haifa prima del rientro in Italia, hanno offerto nuove scoperte della città. Tanto per cominciare la funicolare che dalla stazione nella parte bassa della città  permette in un attimo di arrivare sulle alture del Monte Carmelo, laddove si estende l'attuale centro città; purtroppo funziona sottoterra e non si vede un bel niente.
 Poi il mercato Talpiot, oggi discretamente malandato e urgerebbe restauro, ma significativo esempio di architettura modernista, come abbondano a Tel Aviv; costruito negli anni '40 dall'architetto galiziano Moshe Gerstel emigrato in Palestina nel '35. Su internet ho trovato una foto di come si presentava l'edificio all'interno nei tempi d'oro degli inizi e non c'è paragone col presente, uno spazio tutto aperto con una grande vetrata come tetto e il mercato che si sviluppava su due piani e non solo al pianterreno come attualmente.

Altro spazio interessante degli anni '70 la Cinemateca che ospita l'annuale Film Festival di Haifa, ormai attivo da una trentina d'anni. Leggo che nel 1913, in occasione del 150° anno della sua costruzione, vi si era tenuta la mostra "Torino e la Mole Antonelliana", lo storico edificio simbolo della città sabauda, oggi sede del bellissimo museo nazionale del cinema. Ignoravo che originariamente la Mole Antonelliana fosse stata progettata per diventare una sinagoga.


Sempre sul Carmelo Eldad mi ha fatto fare un bel giro al quartiere Kababir dove svettano i due minareti dell'imponente moschea. A completare il variegato mosaico religioso della città molto tollerante ed ecumenica in materia, è solo in questo quartiere che vive la comunità di mussulmani Ahmadi. L'Ahmadyya è un gruppo indiano islamico, fondato nel tardo XIX° secolo che promuove la pace fra le nazioni opponendosi a qualunque forma di coercizione religiosa o di violenza. Considerati eretici, perseguitati e ostracizzati in vari paesi dell'area orientale mussulmana proprio per questa loro interpretazione "aperta" del Corano, gli Ahmadi sono stati costretti a scappare dai loro paesi d'origine ed a chiedere asilo politico in vari paesi dell'occidente.
Coloratissima, trandy e vivace rehov Masada tutta gremita com'è di locali alternativi e angoli sfiziosi. Qui le tubature stradali diventano dei gufi, i vecchi dischi in vinile si trasformano in rivestimento murale e in un bar dove ci siamo fatti un buon caffé con il benestare dell'intramontabile foto del Che, ho fotografato un cartello divertente, l'autorizzazione a staccare un'etichetta e portarsi via un sorriso.
Bella ma di tutt'altro genere, quello superchic, e in un altro quartiere sderot (viale) HaNadiv; calma assoluta, nessun locale o negozio ma un lungo verdissimo viale alberato costellato di ville ultramoderne e case Bauhaus. HaNadiv in ebraico significa " il benefattore".
 HaNadiv, il benefattore per eccellenza in Israele è lui, il barone Edmond de Rothschild e sempre a lui si pensa nel pronunciare la parola, mi spiega Eldad che mi porta poi nei dintorni di Haifa, sulle alture vicino al villaggio turistico di Zichron Yaakov  dove ci sono "i Giardini del Benefattore", "Gan HaNadiv". Accipicchia del Perù che posto, bellissimi i giardini e con una manutenzione impeccabile del verde, ma quello che mi ha più colpito è il Mausoleo che il barone ha fatto costruire per se e la moglie entrambi seppelliti lì.
Il barone Edmond del ramo francese dei Rothschild è stato senz'altro un filantropo e mecenate d'eccezione, ineguagliabile il suo sostegno finanziario e organizzativo a fine '800 per la prima grande migrazione (Alyah)  sionistica verso la Palestina e per altre molteplici istituzioni, all'attivo ben 5 viaggi in Israele per seguire da vicino l'avvio delle sue numerose iniziative di prima industrializzazione di quella terra ostica e vergine e sarà nientepopodimeno che Ben Gurion a pronunciare il suo elogio funebre, ma il memoriale che si è fatto costruire, francamente, mi è parso eccessivo, sembrava di entrare, che ne so, nella tomba di un faraone, di un re, nulla a che vedere con la modestia e semplicità che mi è più congeniale della tomba di Ben Gurion nel kibbutz di Sde Boker. (http://www.saranathan.it/search/label/Israele%202007

A Dalyat al-Karmel, poco distante dai giardini del Benefattore e a una ventina di chilometri a sud-est di Haifa, ho avuto occasione di visitare anche il Santuario dell'ordine  delle Carmelitane Scalze: dal tetto dell'edificio una visione straordinaria su tutta la vallata sottostante. Purtroppo c'era foschia ma pare che con tempo nitido si arrivi a vedere il monte Hermon con la cima innevata.
Tre settimane volate tra fine ottobre e novembre e ormai finite da un pezzo, non si può certo dire che ne parli in tempo reale. Ero scappata dall'Italia per non dover festeggiare il mio compleanno ed ecco che la cugina Dorit mi ha fatto la sorpresa di una torta con su scritto 120: aiuto, per il momento ne ho poco più della metà ma pare che si usi così, l'augurio di campare oltre il secolo, sai che faticaccia, speriamo di no. Dopo averne visti diversi, ho la certezza che i tramonti di Haifa non hanno nulla da invidiare a quelli di Tel-Aviv e mi sono anche portata a casa delle idee per le decorazioni della tavola: non c'è bisogno di composizioni floreali che oltretutto costano un patrimonio, bastano melanzane, cavolfiori o altre verdure a piacere, come ho visto in un ristorante.