venerdì 13 marzo 2015

Sara Elievna Stern alias Sonia Delaunay

Chi vuole vedere questa straordinaria restrospettiva di Sonia Delaunay, e glielo consiglio vivamente, se ne dovrà andare a Londra, alla Tate Modern (15 aprile- 9 agosto 2015). Io ho avuto la fortuna di godermela nel suo ultimo giorno al Museo d'Arte Moderna de la Ville de Paris, custode di un cospicuo numero di opere donate in parte dall'artista prima e dal figlio Charles poi. Più che a fare la turista le mie brevi incursioni parigine ormai sono dedicate a Noam e a quella meravigliosa occupazione che chiamo "nonnitudine" ma nella vastissima gamma di possibilità che offre la città, almeno una chicca me la riservo ogni volta, il restaurato museo Picasso nel novembre scorso (http://www.saranathan.it/2014/12/donne-chitarre-e-violini-di-un-altro.html), Sara Elievna Stern, ovvero Sonia Delaunay, durante il soggiorno recente di due settimane fa.
Sarà che adoro il colore e tutta la carica di forza e allegria che sprigiona, ma una mostra del genere lascia a bocca aperta, una sferzata di adrenalina pura e poi, era ora, una retrospettiva, la prima credo, che la vede come unica e sola protagonista senza avere accanto il marito. Capitava alla Delaunay come a un'altra coppia apparentemente inscindibile nel panorama dell'arte del primo '900, Larionov e Goncharova presentati inesorabilmente in due. Non che Robert Delaunay non sia altrettanto un "grande" ed è insieme che Sonia e Robert hanno fatto il loro percorso artistico e di vita, le loro ricerche e sperimentazioni di forme e colori, ma Sonia meritava di essere la protagonista assoluta di una mostra e finalmente lo è.
Se l'Art Nouveau a cavallo fra fine '800 e inizi '900 è il primo movimento internazionale che investe tutti i campi della creazione, dall'architettura alle arti figurative e a quelle applicate, se il futurismo di primo novecento esalta la velocità, la tecnica, il progresso, ( Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta" dal Manifesto Futurista di Marinetti pubblicato nel 1909 sul Figaro)
  si può forse dire che Sonia Delaunay riassume e rielabora  tutte queste tendenze della modernità nascente. La sua cifra però, espressa in più campi, dipinti, moda, design, arredamenti, scenografie, non sarà floreale o fitta di ghirigori formali come a fine secolo , né la sua curiosità per cambiamenti, innovazioni e scoperte del secolo nuovo si fisserà sulle fabbriche  a scrutare macchinari, operai al lavoro o catene di montaggio. 
In comune sentire con le avanguardie del primo novecento, il suo lavoro esprime l'entusiasmo e l'energia della vita urbana moderna, ma la sua attenzione si concentrerà fondamentalmente sulle forme e i colori con tutte le applicazioni possibili in un percorso che dal figurativo delle sue prime opere la porterà fino alla completa astrazione dei suoi lavori degli anni '50-'60. Esemplare di questa progressiva smaterializzazione delle forme un suo olio celeberrimo del 1913, "Le bal Bullier", una sala da ballo di boulevard Saint-Michel dove le figure sembrano diluirsi nel colore fino a quasi scomparire, dove i ballerini di tango, nel volteggiare al suono della musica sotto la luce dell'artificiale  fata elettricità, si scompongono in prismi e forme elicoidali, dove il movimento diventa protagonista quanto i danzatori.
Sonia e il marito Robert sono affascinati dalla luce elettrica della città, vogliono farsi promotori di un'arte che sappia tradurre frenesia e brulicare della vita moderna, proclamano la nascita di una nuova arte globale che si fondi sul potere costruttivo e dinamico del colore, il "Simultaneismo", ricerca volta a creare effetti di forma e movimento nello spazio attraverso l'interazione dei colori. Al di là della pittura Sonia Delaunay esplorerà una varietà di supporti e di tecniche legate alle arti applicate: l'appartamento dei due artisti, fucina di idee e di frequentazioni avanguardiste verrà decorato, come altri luoghi, dalle creazioni "simultanee" di Sonia che nel '24 aprirà il suo "Atelier simultané" dedicato alla creazione tessile, una casa- bottega dove l'artista impiega delle operaie russe per ricopiare, disegnare e confezionare i suoi progetti di tessuti e i suoi modelli, ricamare sciarpe e cappotti di lana. A una ricca clientela chic e cosmopolita "L'atelier simultané" proporrà in vendita una gamma straordinaria di articoli, frutto delle ricerche tecniche, formali e coloriste dell'artista e il cappotto dell'attrice Gloria Swanson, lavorato in dieci toni di lane differenti, ne è un chiaro esempio.  
Forse inconsapevole antesignana dell'Optical Art degli anni '60-70, Sonia Delaunay è un vulcano sempre attivo che fino all'ultimo istante di vita non smette di eruttare preziose lave artistiche: i suoi "vestiti-poesia" dove con i versi dei poeti che ama sperimenta le proprietà plastiche della parola sul tessuto, decori e arredamento della libreria dadaista "Au sans pareil", costumi di scena geometrici e coloratissimi per gli eventi teatrali  degli amici avanguardisti, Tristan Tzara in testa, decori e costumi per film, e fra le opere monumentali la decorazione del Padiglione delle Ferrovie,  la realizzazione del Palais de l'Air e la tela di 5x6 metri "Rythme", creata per il XV° Salon des Tuileries e da ammirare proprio all'ingresso della mostra.
Davvero grande entusiasmo per questa mostra  e non solo per la conoscenza ravvicinata di Sonia Delaunay, ma anche per la qualità dell'allestimento delle sale dove, con sapiente regia scenografica, pareti e volumi degli spazi sembravano accordarsi al ritmo delle opere. Nel bookshop del museo ho persino trovato un libro pop-up dell'artista per la mia collezione, evviva!
Ancora un momento, per favore, il post non è finito e le sorprese neppure perché non mi soffermo sulle ricche collezioni permanenti del museo, ma almeno tre sale straordinarie meritano alla grande di essere condivise. Le due sale con "la Danse inachevée" e "La danse de Paris" di Matisse. La prima iniziata nel 1931 e  mai ultimata su commessa della Fondazione Barnes a Filadelfia che riprende il tema del "Bonheur de vivre" del 1905-06;  è stata riscoperta a Parigi arrotolata non so in quale angolo nel 1992. La seconda è stata acquistata dalla città nel 1937 proprio per questo museo.
E ciliegina finale la terza sala con "La fata elettricità" dipinta da Raoul Dufy per la hall d'ingresso del Palazzo della Luce e dell'Elettricità, lavoro architettonico di Robert Mallet-Stevens al Champ de Mars nel quadro dell'Esposizione Internazionale del 1937. Una composizione monumentale quella di Dufy che riprende la storia dell'elettricità e delle sue applicazioni in una sintesi fra mitologie e allegorie della luce legate all'antichità e descrizioni tecnologiche del presente. L'opera è stata trasferita nel 1964 nel Museo d'Art Moderne de la Ville de Paris. Semplicemente strepitoso!!!

mercoledì 4 marzo 2015

la Villa Arson a Nizza

Negli anni scorsi in questo periodo ero in giro per altre latitudini a cercare dove il vecchio sole scalda di più e l'emozione di nuove scoperte in paesi lontani; infatti Gastone, l'abituale sodale di viaggio, non è venuta meno all'appuntamento invernale e tradendomi ignominiosamente se n'è andata in Rajastan e Goujarat in altra compagnia: sono contenta per lei, ha fatto un viaggio bellissimo, ma la sottoscritta con qualche soldino in tasca di meno e qualche dolore "romantico" in più (come mia madre chiamava  gli acciacchi "reumatici")  non ha fatto la valigia. Però... però... però... non mi lamento certo, mi considero sempre fortunatissima, a Nizza la sorpresa della Villa Arson e a Parigi, oltre alla gioia sempre rinnovata di nonna, la mostra straordinaria di Sonia Delaunay di cui parlerò nel prossimo post.
In Francia ci sono più o meno 57 scuole d'arte e meno di dieci sono statali: la Villa Arson è fra queste dieci, in una ristretta lista che comprende centri di studi e d'arte prestigiosissimi come L' Ecole des Beaux Arts nelle sue varie sedi di Parigi e di altre città (Digione, Nancy, Lione etc) o l'Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs nella capitale. Concorso severissimo per accedere a queste scuole, a Villa Arson ogni anno al test d'ingresso si presentano 500 giovani e solo una quarantina passerà la selezione; la scuola, dalla formazione gratuita, accoglie complessivamente all'incirca 200 allievi, un corso di studi post-liceale di cinque anni con insegnamenti teorici e pratici. Tecnologie numeriche dell'immagine e del suono, storia dell'arte ed estetica, numerosi atelier di stampa, scultura, fotografia, scenografia, pittura, ceramica, lavorazioni del metallo e del legno, le varie tecniche di arti grafiche, per ogni studente non c'è che l'imbarazzo della scelta nel ricercare la propria futura cifra artistica. 
Devo tutte queste informazioni al gentilissimo professore Frédéric Bauchet responsabile dell'atelier di  ceramica dove mi accoglie mentre segue alcuni ragazzi al lavoro. Mi spiega che è un vero privilegio per docenti e discenti lavorare a Villa Arson  che non è solo scuola, ma polo culturale e artistico di grande respiro perché anche centro nazionale di arte contemporanea, mediateca, residenza per artisti francesi e stranieri che grazie a borse di studio possono soggiornare qui, usufruire di tutte le strutture del centro e dare visibilità al loro lavoro con una mostra assicurata. Ed ecco troneggiare un cavallo di Troia, frutto di un lavoro collettivo,  che ha fatto gran spettacolo in giro per la scuola . 
Se penso al sovraffollamento di molti nostri istituti ed università e allo stato precario di edifici e strutture, non posso che restare incantata dall'investimento francese su scuola e cultura, un vero fiore all'occhiello dove ogni giovane viene seguito individualmente, dove gli si offre un contesto di studio-lavoro straordinario, dove concretamente si apriranno prospettive di inserimento futuro. 
In effetti ho parlato di contesto straordinario e questo vale non solo per  la scuola ma anche per il luogo, non a caso dichiarato "Patrimonio del XX° secolo" perché siamo a Nizza sulla collina della Sainte Barthélemy, su una superficie di 23.000 metri quadrati in un insieme architettonico e paesaggistico mozzafiato dove nessun dettaglio è stato trascurato: dal giardino studiato da Siah Armajani con panche, tavoli e elementi di design alle sculture di artisti già affermati che abitano alberi (François Morellet "90° à l'ombre" 1989)), terrazze, viali e corridoi, spazi esterni ed interni, dal mare e le colline intorno a fare da cornice superlativa alla vecchia villa all'italiana del XVIII° secolo circondata dalla modernissima struttura tutta cemento dell'architetto Michel Marot. 
Muri di cemento rivestiti di ciottoli del vicino fiume Var con al centro dell'area, a sottolineare la continuità   fra passato e presente, la vecchia villa, un connubio particolarissimo tra il minerale e il vegetale, tra le vecchie pietre e il nuovo rigoroso cemento, "un compromesso tra una fortezza antica e un vascello dal futuro improbabile, un luogo fatto di atmosfera più che di segni" secondo la definizione di un altro collega architetto. Certo se fossi venuta qui qualche anno fa probabilmente non avrei apprezzato  questa struttura brutalista così massiccia ed essenziale, avrei trovato offensivo tutto questo cemento grigio in compagnia degli assolati colori mediterranei e della leggerezza delle sue forme, ma la frequentazione degli amici dell'associazione Le Corbusier e i viaggi fatti con loro hanno educato il mio sguardo.  La vecchia villa e il giardino hanno una lunga storia: sono prima proprietà privata di un ricco banchiere, diverranno nel 1884  il Grand Hotel Saint Barthélemy e nel 1927 addirittura una casa di cura, la clinique Cyrnos, prima di divenire patrimonio della città nel 1948 e in seguito dello stato. Sarà nel 1962 quel gran ministro della cultura che è stato André Malraux, innamoratosi del sito, ad avere l'idea di trasformarlo in una scuola internazionale di Belle Arti; nell'ambito di una vasto  progetto di decentralizzazione, la scuola, più un centro espositivo e le residenze per artisti avrebbero spalancato alla formazione artistica e allo scambio internazionale le porte del sud già scoperto da fine 800 da tanti grandi artisti come luogo privilegiato per la creazione. Nel 1970 il nuovo assetto della Villa Arson sarà ultimato con la salvaguardia del vecchio edificio e del giardino, patrimonio già esistente, e la modernità della nuova architettura nell'area circostante.   
Troppo lungo e difficile inoltrarmi per gli ardui sentieri dell'arte del presente, solo uno sguardo alle due esposizioni che si tengono attualmente a Villa Arson riunite sotto un unico denominatore comune, ovvero "Bricologie", una riflessione molto articolata su strumenti, tecniche, materiali, manualità, saperi artigianali di cui un'opera d'arte può essere espressione e naturalmente idee e significati che ci stanno dietro,  In mostra le creazioni di artisti affermati e quelle degli allievi della Haute Ecole d'Arts Plastiques di  Brauschweig nell'ambito di uno scambio internazionale fra le due scuole. Mi incanta un video "Déjà vu" di Michel François di cui riesco a captare dei fotogrammi di una mano che con un semplice "gesto" fa assumere le forme più svariate a della banalissima carta di alluminio da cucina, un immenso cuscino nero concepito da Robert Ernst che però chiunque può far gonfiare azionando twitter da casa, un gesto virtuale che opera da lontano direttamente sulla materia.
La complessità e la varietà delle espressioni artistiche dell'arte contemporanea necessitano di conoscenze e di spiegazioni, non sono  più sufficienti la fruizione visiva ed emozionale dell'opera; in questo senso mi sembrano indicative  due citazioni offerte dal ricco catalogo della mostra che aprono alla riflessione. Una è dell'artista Panamarenko: "On opère une distinction entre la technique, la science et l'art. Foutaise! Ce n'est qu'une gigantesque soupe, avec laquelle vous pouvez décider de vous amuser ou non. ça peut être beau ou ne ressembler à rien..." L'altra è del più grande dissacratore del '900, quel Marcel Duchamp che mette i baffi alla Gioconda ridendosela non certo di Leonardo da Vinci ma di convenzioni e conformismi del gusto corrente: "L'art c'est la connaissance technique d'un métier. Les Beaux-Arts? Tous les arts sont beaux.  Celui du rémouleur est fascinant: mais c'est un artisan. Quelle différence? Mon coiffeur se dit artiste et aussi le pâtissier....". E la sua porta dalla duplice cerniera, che contemporaneamente apre una stanza e ne chiude un'altra, sta proprio lì a sottolineare che nessuna certezza inconfutabile è possibile.