sabato 23 maggio 2015

Milano: saremmo diventati dei wuerstel?

Niente da fare, per vedere le mostre più ricche e interessanti di Milano bisogna andare alla Triennale, un  indirizzo prezioso e una certezza, ma cominciamo dagli esterni fra scoperte belle e altre meno. Nuovo fiammante il bar-ristorante sul tetto da cui si gode fra le più belle viste di Milano, in pole position al di là degli alberi i nuovi grattacieli che ruotano intorno al quartiere Garibaldi e a piazza Gae Aulenti, il Castello sforzesco e la Madonnina.

Dirigendo lo sguardo in basso si vede il parco della Triennale insolitamente e forse fin troppo pieno, oltre alla fontana di de Chirico nuovamente restaurata di cui ho già avuto modo di scrivere, (http://www.saranathan.it/2012/07/e-avanti-col-kitsch.html), una mega bottiglia di ketchup pronta forse per il "Big Big Mac" di Tom Friedman esposto in mostra, strutture illuminate e il Teatrino dei Burattini che passa attraverso la cultura dei saltimbanchi e della commedia dell'arte progettata dall'atelier Mendini; e per le note mondane, solo durante i mesi dell'expo la gestione del bar in giardino è in mano nientepopodimeno che al marchio Cova di via Montenapoleone, roba da "sciuri" come si dice in milanese.


Le note dolenti sono rappresentate dal fatto che il cantiere davanti all'ingresso è ancora aperto e i lavori non ultimati. Passi per alcune fermate della metropolitana viola non ancora pronte e operative, ma si sapeva da un bel po' che la Triennale sarebbe stato il polo dell'Expo in città, il primo Padiglione di Expo 2015 aperto al pubblico fin dal 9 di aprile e ci sono ancora le ruspe e il manto stradale per aria. Semplicemente.....imperdonabile!!!

Ma entriamo ora nel vivo della mostra vera e propria "Arts & Food" curata dal direttore artistico della Fondazione Prada a Milano e della Fondazione Vedova a Venezia, quel Germano Celant, scopritore dell'Arte Povera e deus ex machina delle avanguardie, che così la spiega: " un viaggio molteplice nella pluralità dei linguaggi che dal 1851, anno della prima Expo a Londra, fino a oggi hanno ruotato intorno al cibo e alla nutrizione".


Perbacco che progetto ambizioso, qui si tratta di dar conto di più di 150 di storia e poiché nelle intenzioni del curatore il viaggio è molteplice e i linguaggi sono plurali, non manca niente, ma proprio niente, la mostra è un inarrestabile fiume in piena di opere, sfila un intero universo legato al cibo e ai riti del mangiare in tutte le possibili declinazioni e rappresentazioni del passato e del presente, figurative, astratte, reali, simboliche, immaginarie, ironiche, grottesche, provocatorie.

Dai "Contadini al lavoro" di Boccioni alle foto di Giovanni Gastel, dal "Paese di Tarantelle" di Fortunato Depero ai "Vecchi utensili di cucina" di Daniel Spoerri, dalla "Leaning fork with meatball and spaghetti" di Oldenburg alla "Scrivania ricoperta di cozze" di Marcel Broodthaers, da una vecchia macelleria al bar YSL di Lalanne, dai vestiti "alimentari" di Ken Scott al "Cézanne Still Life 4" di George Segal, dalla "Mozzarella in carrozza" di De Dominicis, una solitaria  mozzarella comodamente adagiata sui sedili interni di una vera carrozza a una gigantesca caffettiera e altri oggetti cult per eccellenza con il tappeto "Belpaese" di Cattelan che riproduce la scatola dell'omonimo formaggio Galbani  appeso alla parete che sovrintende, iconoclasta, a questo nostro mondo in esposizione.

Impossibile e impensabile dare una panoramica esaustiva di così tante opere, non a caso il catalogo della mostra è un volumone che non finisce più, ma vorrei per esempio mostrare il percorso nel tempo della cucina, stanza imprescindibile del nostro vivere che con il bagno ha forse subito i più grandi cambiamenti. 

Si inizia con una cucina liberty presentata nel 1908 alla prima Esposizione Universale milanese, seguono una realizzazione del cubismo cecoslovacco con i suoi motivi geometrici risultanti da combinazioni di bianco, nero e marrone, una futurista che vorrebbe transformare il mangiare in un'esperienza multisensoriale, quella funzionalista degli anni '20 con l'obbiettivo di ottimizzare gli spazi e rispondere a criteri di igiene e utilità. Ulteriore passo avanti in questa spinta alla modernizzazione la cucina Type 1 del 1955 di Le Corbusier, concepita per l'Unité d'Habitation della Cité Radieuse di Marsiglia dove i principi funzionalisti vengono applicati a uno spazio abitativo collettivo. (http://www.saranathan.it/2013/10/la-casa-del-matto.html). Sempre negli stessi anni '50 Jean Prouvé risponde all'appello dell'Abbé Pierre fondatore di Emmaus per assistenza e ospitalità agli emarginati creando una casa essenziale di 57 mq. montabile in poche ore, Consagra penserà invece a un mobile particolare e Munari con Mari a una macchina per il caffé.

 Monet si dedica allo "chef Père Paul", Kirchner al "Pasto della famiglia contadina", Andy Warhol alla sua interpretazione dell "Ultima Cena", Picasso, Braque, Morandi, Wesselmann e tanti, tanti altri dipingeranno nature morte e still life a volontà.


Parallelamente servizi, piatti, teiere, tazze seguiranno stili, epoche e gusti

Nella mostra, di opere esposte che mi hanno stupita e disorientata suscitando ogni sorta di perplessità ce n'erano a bizzeffe e come al solito riguardano soprattutto la contemporaneità. Con qualche difficoltà intuisco l'ironia del "Food situation for a patriotic banquet" di Miralda anche se la muffa dei piatti in decomposizione è veramente orrida. 
Trovo dirompente nella sua muta asetticità la denuncia espressa dalla fotografia del supermercato stipato all'inverosimile, consumismo sfrenato allo stato brado, ma i sassofoni  in mezzo alle noci di cocco, l'igloo di pane azzimo di Mario Merz, la rappresentazione umana risolta in un tavolo antropomorfo e la "Bread House" di Urs Fisher non  suscitano in me veramente alcuna emozione, anzi vorrei sapere chi è il collezionista privato di quella casa di pane. 
Probabilmente di questi tempi fine dell'arte non è più suscitare emozioni, ma denunciare e far riflettere e se così è,  novello Duchamp del XXI° secolo è senz'altro l'autore, di cui mi scuso ma non ricordo il nome, di  quei salsicciotti giganti sdraiati per terra nei sacchi a pelo con il fuocherello che arde nel mezzo. Avrebbero ragione la Bibbia, Ippocrate, Feuerbach, "siamo quel che mangiamo" e poiché una parte del mondo, solo una parte ed è la nostra, mangia troppo e male, eccoci trasformati in tristissimi wuerstel in sacco a pelo. 

1 commento:

  1. Bellissimo articolo anche questo. La Triennale... un déjà-vu che mi riporta ai tempi delle mie scorribande segrete notturne al Piper, durante la mia fase di "ragazzaccia".

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