giovedì 17 marzo 2011

stupa, pagode e monasteri (1)

 
Stupa, pagode e monasteri, il birmano usa  Paya ovvero "cosa sacra" parola che riferendosi a persone, divinità o luoghi,  li definisce e li comprende tutti. Parlando del Myanmar mi sembra non si possa che  iniziare con il "sacro", col rapporto costante e giornaliero che la gente intrattiene col Buddhismo Theravada, la più antica  manifestazione (Theravada significa "dottrina degli Anziani") di questa "religione", sorta in India, iniziata a diffondersi pare già nel III secolo prima dell'era volgare grazie a missionari inviati dal fervente imperatore indiano Asoka e secoli dopo  attraverso monaci provenienti dallo Sri Lanka per divenire infine religione di stato in Birmania a partire circa dal primo millennio della nostra era.

 Uso la parola "religione" fra virgolette con molta precauzione, non lo è certo nel senso tradizionale delle religioni monoteistiche, assenti il trascendente, la fede, il senso del mistero e dell'insondabile, l'ipotesi di una vita ultraterrena, qualsivoglia certezza dogmatica, in realtà una dottrina etico-filosofica elaborata dall'indiano Gautama Buddha nel VI secolo prima dell'era volgare che pone l'uomo e la sua vita terrena al centro della sua riflessione. Il Buddha stesso infatti, malgrado l'esorbitante numero di statue e la venerazione di cui è fatto oggetto,non ha alcun carattere divino, non è un Dio o una creatura soprannaturale, ma un uomo divenuto Maestro, un Illuminato che rammenta attraverso l'esempio della sua vita ed i suoi insegnamenti la strada da percorrere.
Pindaya
Kyaiktiyo (Golden Rock)
Eppure "religione", perché malgrado contenuti "altri", pur tuttavia propone un percorso salvifico dalla sofferenza e dal dolore e della "religione" ci sono i riti, le osservanze individuali e collettive, norme precise da rispettare, un cammino etico cui uniformarsi. Nessuna distinzione occidentale tra momenti di vita sacra e vita profana, nessun tormento introspettivo dell'anima da riservare la domenica mattina in chiesa, il credo buddhista permea naturalmente ogni istante del quotidiano, dall'offerta di cibo alla questua quotidiana dei monaci al raccoglimento davanti all'altarino di casa.

Stupa, pagode e monasteri mi sembrano dunque essere la cifra peculiare di questo paese e delle coordinate del vivere della sua gente, andando in giro lo sguardo è sistematicamente riempito da guglie dorate che svettano ovunque. L'architettura e l'arte  birmana del resto sono tradizionalmente esistite come espressione del sacro con funzione educativa e didattica; chi dipingeva lo faceva sempre sulle pareti di un tempio, chi scolpiva creava per porre un'opera al suo interno, l'obbiettivo comune di compiere azioni meritorie per assicurarsi una prossima buona vita, in passato faceva edificare templi e pagode, oggi fa restaurare  quelli già esistenti.
Monte Popa
Naturalmente ogni luogo è diverso ed ha le sue specificità, ma alcune caratteristiche risultano comuni, tanto per cominciare la scelta del luogo, a parte la vasta  pianura dell'area centrale di Mandalay e  Bagan e templi sull'acqua, sempre in alto, arroccato su monti e colline, sfruttando ogni anfratto di rocce e pietre.  Il Monte Popa (vicino a Bagan) quasi surreale avvolto nelle brume del mattino, Pindaya (vicino al lago Inle)  e Kyaiktiyo (nei dintorni di Bago) ne sono la più vistosa esemplificazione. Sulla sommità del Monte Popa non ci siamo arrivate, a parte il coraggio necessario per salire non ricordo bene quanti gradini, c'era una tribù di scimmie e tanti loro escrementi per terra e siccome si accede ai luoghi sacri sempre rigorosamente senza scarpe, abbiamo soprasseduto.  Kyaiktiyo, un tempo inaccessibile, è quell'incredibile stupa posto su un masso in bilico sulla roccia, luogo fra i più sacri del paese. La leggenda dice che il masso mantiene il suo precario equilibrio grazie a un capello del Buddha posto in un preciso punto  dello stupa. Luogo di grandissimo fascino sia all'alba che al tramonto, le foglie d'oro che solo gli uomini (le donne non possono) incollano sistematicamente alla roccia, regalano riflessi da sogno, i pellegrini recitano cantilene, accendono candele e meditano tutta la notte.
A 13 kilometri dalla omonima città, un sentiero RIPIDISSIMO, gremito di bancarelle di souvenir con l'artigianato locale e rifocillamenti, si inerpica per la montagna. Il modo più meritorio naturalmente è quella di  farsela tutta a piedi, oppure i primi 10 chilometri su un camion caracollante stipati come sardine e solo l'ultimo tratto gagliardamente a piedi come questi monaci e la mia compagna Gastone. La sottoscritta, e se ne vergogna da morire a confessarlo, ci ha provato, ma non ce l'ha fatta, finendo in portantina con ben quattro portatori come un maharaja fino alla meta.


Interminabili gradini, frequentemente stretti e molti alti anche per raggiungere Pindaya, grotta  di roccia calcarea al cui interno, in compagnia di stalattiti giganti  ci sono migliaia di statue del Buddha, di tutte le dimensioni e di tutti i materiali, alabastro, ceramica, porcellana, teak, lacca, cemento, messe qui nel corso dei secoli e disposte in modo da formare un labirinto che si snoda nelle varie camere della grotta. -Ma questa gente è piccola e con le gambe corte- pensavo- ma perché diavolo hanno fatto dei gradini così? Ed eccola la seconda caratteristica comune delle Paya, la difficoltà, la fatica dell'accesso. Per arrivare, per migliorare, per progredire, per elevarsi , (che ognuno impieghi il verbo che più  gli è  consono) e non solo materialmente, ma soprattutto spiritualmente, bisogna far fatica, tanta fatica. C'è la strada della salita da percorrere, il silenzio e la difficoltà che l'accompagnano, la limpidezza della motivazione, il senso da ritrovare ed elaborare quando sei arrivato in cima. Valori, questi, universali, validi a tutte le latitudini, mi sono venuti in mente tutti gli eremi di monaci ed eremiti sparsi fra le nostre montagne, mi sono venute in mente le scale che sfidavano il cielo dei templi maya di Tikal e Copàn in Guatemala e Honduras visitati qualche anno fa. Certo le mie gambe allora si inerpicavano agili, ma i pensieri che mi abitavano non erano gli stessi e le aquile volavano alte.


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