martedì 14 gennaio 2014

Colombia: a casa di Gabito e Fernando

Botero: donna con chitarra
Pablo Neruda titola la sua autobiografia "confesso che ho vissuto" e Garcia Marquez "vivere per raccontarla". Mi entusiasmano l'immediatezza e la "fisicità" del loro rapporto con la vita e con le parole che la esprimono. La vita degli autori latino-americani sembra fatta di una pasta diversa dalla nostra, è più ricca, densa, intensa, incontenibile, avventurosa, sorprendente e lasciandomi trasportare dalla ricchezza della loro scrittura mi verrebbe da aggiungere altri aggettivi ancora. Si tratta di grandi autori e cammin facendo avranno certo conosciuto occasioni e esperienze particolari però forse non è la vita in se ad essere così diversamente straordinaria, ma lo è il loro slancio nel viverla, nel tuffarcisi dentro, nell'osservarla e descriverla, quelle parole debordanti, coloratissime della loro scrittura che fanno vibrare persino il foglio bianco del libro, annerito del loro alfabeto appassionato.



 "Credo che l'essenza del mio modo di essere e di pensare la devo in realtà alle donne della famiglia e alle molte della servitù che ebbero cura della mia infanzia. Avevano un carattere forte e un cuore tenero, e mi trattavano con la naturalezza del paradiso terrestre. Fra le molte che ricordo, Lucìa fu l'unica che mi stupì con la sua malizia puerile, quando mi portò nel viottolo dei rospi e si alzò la sottana fino alla vita per mostrarmi il suo pelo ramato e scarruffato". (1)  "...ho sempre patito la tortura mattutina che Mina mi pulisse i denti con lo spazzolino, mentre lei godeva del privilegio magico di togliersi i suoi per lavarli e lasciarli dentro un bicchiere di acqua mentre dormiva....per un bel pezzo mi ostinai insistendo che il dentista mi facesse la stessa cosa che alla nonna, affinché lei mi pulisse i denti mentre io giocavo per la strada". (1)


Intensi proprio tutti questi spagnoli delle Americhe, come se quel "realismo magico", cifra peculiare della letteratura latino-americana a cui Màrquez ha fatto da battistrada, avesse contagiato fantasia e parola di un continente intero,  "Arrancame la vida" "Strappami la vita" titola Angeles Mistretta un suo romanzo memorabile come se "la vida" anche nei suoi meandri più profondi e misteriosi fosse strappabile, "Prendere due colombe messaggere e torcere loro il collo senza pietà" si legge fra le ricette afrodisiache suggerite da Isabel Allende in "Afrodita"; passionalità, palpabilità delle parole, invenzioni narrative che sanno far volare, come una tavolozza multicolore che tinge di risvolti cromatici persino la più banale quotidianità del lettore.
                                                                                                                               
C'è chi ha paura, chi non osa, chi tira a campare, chi come lo struzzo infila la testa nella sabbia, chi si accontenta di pallidi surrogati, loro no, questi hidalghi in pantaloni o gonnella in trasferta da cinque secoli dall'altra parte dell'oceano tengono giorno per giorno la spada sguainata, prendono la vita di petto, se la bevono tutta d'un fiato e ce la raccontano come uno straordinario romanzo d'avventure. Sarà il "fuego" interiore, sarà un "coraçon" sempre in subbuglio, sarà la magia della "vida", la storia tormentata, la mescolanza di etnie e genti, saranno i territori sconfinati, prodigi ed eccessi di una natura esuberante e di climi estremi, non lo so, ma ricordo bene le alghe lunghissime e possenti sulle spiagge di Isla Negra in Cile, emblematiche forse di un gigantismo del reale e del sentire.

E direttamente proporzionale all'opulenza delle parole è quella delle immagini, le creature di Botero  risultano subito riconoscibili affette come sono da gigantismo acuto; talmente immense  che sembrano stentare a star dentro la tela, invenzioni pittoriche o scultoree in balia della lente deformata dell'artista che si diverte a dilatarle a dismisura. "Ma non è certo la grassezza come concreta qualità esistenziale che m' interessa! Io penso piuttosto alla ricerca del volume, al senso del colore e della composizione, a una dimensione altra, solo pittorica, più soffice della realtà, che appare secca e cruda se paragonata alla pittura. Una donna bella nella vita reale, quando viene dipinta pare un' illustrazione di Playboy. E allora amplifico. Più grande è lo spazio, più la pittura si riempie di luci e suoni e comunica sensualità, trasmette il piacere carnale del cibo legato a quello dell' amore. Nei miei quadri proietto una sfera diversa, parallela e simultanea rispetto alle asciuttezze della vita, un luogo mitico dove si mangia, s' ingrassa, si ama, e uomini e donne godono della loro esuberanza. Questo, per me, è il trionfo della seduzione". (da un'intervista a Botero di Leonetta Bentivoglio su la   Repubblica del 26 marzo 1996)

Il paese d'origine di Màrquez e Botero è la Colombia, grande come la Francia, la Spagna e il Portogallo messi insieme, una superficie di tutto rispetto se guardata con l'occhio di un europeo, ma quisquilie se paragonata a un Argentina o a un Brasile. In Colombia, se le stelle mi saranno favorevoli, dovrei spiccare il volo per due settimane il 23 gennaio. Volevo starmene tranquilla a casa, una certa sedentarietà faceva parte dei miei proponimenti per l'anno nuovo, ma quando Donatella e Carlo Alberto, amici di lunghissima data e gli unici che conosco del gruppo di dieci persone che si accinge a partire, mi hanno raccontato la loro destinazione, non ho saputo resistere. Forse la coerenza non è il mio forte.

Come al solito mi preparo al viaggio a modo mio, ignorando tutto dei tesori del Museo dell'Oro di Bogotà, delle meraviglie di Cartagena de Indias o delle sculture archeologiche di San Agustìn, lasciando momentaneamente le guide chiuse per non guastare la sorpresa e sfogliando invece, una volta ancora, quelle pagine di letteratura che mi hanno fatto sognare, lasciandomi trasportare da tutte quelle immagini e dai loro colori nel tentativo di cogliere un qualcosa, una scintilla infinitesimale del genius loci, un frammento dell' atmosfera del paese che visiterò.


"Sicché per noi, aborigeni di tutte le province, Bogotà era la capitale del paese e la sede del governo, ma soprattutto era la città dove vivevano i poeti. Non solo credevamo nella poesia, e per questa morivamo, ma sapevamo pure con certezza...che la poesia era l'unica prova concreta dell'esistenza dell'uomo". (1) "Cartagena de Indias, in effetti, era alle mie spalle da quattrocento anni, ma non mi fu facile immaginarla a mezza lega dal folto di mangrovie, nascosta dalle mura leggendarie che l'avevano tenuta in salvo da gentili e pirati nei suoi anni di gloria, e avevano finito per scomparire sotto un viluppo di ramaglie arruffate e lunghe filze di campanule gialle". (1) "Dal cielo, come le vedeva Dio, videro le rovine dell'antichissima ed eroica città di Cartagena de Indias, la più bella del mondo, abbandonata dai suoi abitanti per il panico del colera dopo aver resistito a ogni tipo di assedio di inglesi e angherie di bucanieri per tre secoli. Videro le mura intatte, le erbacce delle strade, le fortificazioni divorate dalle viole del pensiero, i palazzi di marmo e gli altari d'oro con i loro viceré marciti di peste dentro alle loro armature". (2) Le poesie di Fernando Pessoa e il film di Wim Wenders mi hanno aiutata a Lisbona, Pablo Neruda è stato prezioso in Cile, inimmaginabili Napoli senza De Crescenzo e il suo "Così parlo Bellavista" o Vienna senza Klimt, Schiele o Joseph Roth, sono sicura che anche Botero e Màrquez saranno i miei fari nella notte nell'incontro con il loro paese.




Ho però letto che la Colombia è famosa per la sua musica e che in tutto il paese il silenzio è una vera rarità; vallenato, cumbia, joropo, merecumbe, mapalé, generi musicali da me ignorati che spero di ascoltare dal vivo; per intanto e nell'attesa sono andata a risentirmi ciò che già conosco e adoro "Gracias a la vida" della cilena Violeta Parra e l'argentina Mercedes Sosa che canta Todo Cambia.





PS: (1)  Gabriel Garcìa Màrquez: "Vivere per raccontarla"  Oscar Mondadori
      (2)  Gabriel Garcìa Màrquez: "L'amore ai tempi del colera" Oscar Mondadori

3 commenti:

  1. Che bello, Sara: mi piacerebbe un sacco partire insieme a voi. Non conosco affatto l'America del sud, se non attraverso le opere dei suoi artisti e scrittori. La Colombia significa indubitabilmente Màrquez e Botero. Gabo mi ha catturato con la sua prosa ricca e la sua fantasia sconfinata, e Botero con le sue immagini iperboliche e, insieme, dolcissime. Due giganti venuti su in una terra ricca e selvaggia, in un clima torrido con una vegetazione aggressiva e immense paludi inesplorate. Non avrebbe potuto nascere lì un Novalis, e nemmeno un Montale. Non c'è posto per l'introspezione malinconica nell'arte colombiana, anche la storia è condizionata da una vitalità irrefrenabile, da colori iperrealisti, da suoni armoniosi e insieme laceranti. "Cento anni di solitudine" di Màrquez narra le vicende della Colombia attraverso sette generazioni di una sola famiglia, miscelando storia e leggenda, miracoli e tragedie, amori e guerre, nella sua prosa sanguigna e compassionevole, per spiegare che tutti sono soli, a dispetto delle compagnie, degli affetti, degli amori che circondano ogni personaggio.
    Anche Botero in un certo senso è un poeta della solitudine: le sue figure sono aggraziatamente voluminose su sfondi privi di altre figure umane, che fanno risaltare l'unica presenza levigata, amabile e fondamentalmente triste della ballerina, della donna con chitarra, della coppia di spalle e così via.
    Nell'esplosione di colori, suoni, stimoli sensoriali vari, l'uomo è un'opera artistica solitaria.

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  2. Daniela grazie, il tuo commento è praticamente un riuscitissimo articolo; ma mi fai concorrenza? ah ah ah

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