sabato 31 luglio 2010

Drohobycz, Boreslaw, Truskavets


Sul piazzale davanti alla stazione dei treni prendiamo l'autobus 122, 80 km di distanza direzione sud-ovest, verso i Monti Carpazi, 2 ore di percorso. Sedute in prima fila vediamo bene la strada che si snoda davanti a noi, prima le brutte periferie del Lwow, poi  casette, installazioni agricole, tanto verde di campagne, il cosiddetto "granaio d'Europa " comincia a mostrare i suoi campi coltivati di girasoli. I miei orecchini di plastica nera mi fanno un pò male, li tolgo e li appoggio in un angolo dell'autobus e me li dimenticherò lì, giustifico la mia solita  distrazione pensando che inconsciamente volevo lasciare da queste parti qualcosa di mio. L'autobus si ferma davanti alla stazione ferroviaria, c'è afa e fa molto caldo, non ce la sentiamo di andare a piedi fino in centro, seguiamo l'onda umana e saliamo su un autobus cittadino pieno come un uovo. 





E' giorno di mercato a Drohobycz, le strade brulicano di gente e mercanzie, (quante barbabietole crude in vendita, mamma avrebbe fatto indigestione di borsch), ma in verità non so niente, magari c'è mercato tutte le mattine. La prima impressione è quella di una tranquilla cittadina di provincia con una bella piazza centrale, un grande parco, monumenti dedicati a poeti ed eroi nazionali, varie strade e stradine che si diramano intorno; di fondi evidentemente non ce ne sono perché nessuna delle belle case polacche o austro-ungariche è restaurata, decadenti sonnecchiano, basta allontanarsi un attimo dal centro perché ciottoli, vecchie pietre o catrame del selciato diventino semplice terra da viottoli di campagna. Telefono all'Università perché ho letto che degli studenti organizzano circuiti della Drohobycz ebraica di un tempo, per forza, lo era il 40% dei suoi 35.000 abitanti, ma purtroppo sono le 13 di venerdì, fino a lunedì non si lavora più. L'indirizzo preciso della casa di mia madre è un'altra delle tante cose che non ho mai chiesto, perciò con Gastone vaghiamo senza meta cercando di cogliere lo spirito del luogo, impregnarmi in qualche modo di un'aria di famiglia, trovare "una madeleine" che susciti un ricordo udito; nessuno sa dare informazioni, ma alla fine troviamo  la casa di Bruno Schulz. Sui muri esterni c'è una targa, credendo erroneamente a una casa-museo  suoniamo il campanello, saremo allontanate in malo modo dalla proprietaria, una vecchia signora in grembiule.



-"Caratteristica del quartiere sono le carrozze senza conducenti, che se ne vanno tutte sole per la strada....."-  scriveva Schulz. Come spesso succede la dicotomia fra  realtà e letteratura è grande, difficile ritrovare nella città quell'atmosfera magico-onirica della novella di Schulz del '34 La via dei Coccodrilli (nella raccolta Einaudi Le botteghe color cannella), Schulz il poeta, Schulz il pittore, Schulz il visionario, morirà nel '42 nel vicino Parco Bandera sotto i colpi di pistola di un ufficiale tedesco delle SS.






Anche se in cirillico, per i miei ragazzi e per i miei nipoti compro un libro pesante ma pieno di foto moderne e ritoccate della città, devono vedere, la loro nonna ci ha vissuto in fin dei conti fino alla maturità liceale, (prima di trasferirsi alla facoltà di medicina di Vienna perché agli ebrei col numerus clausus di fatto era negato l'accesso universitario); vorrei delle immagini che parlino soprattutto del passato, vecchie foto o  cartoline che raccontino Drohobycz  com'era, ma non c'è nulla, il passato sembra non esistere, alcuna memoria dei luoghi, dei fatti, della vita di un tempo.






A Boreslaw, a pochissimi chilometri di distanza, questa sensazione di vuoto, di negazione, di cancellazione geografica ed umana del passato si fa ancora più forte, paese come un povero fungo prataiolo spuntato dopo la pioggia da una terra senza storia, come se non ci fosse stata la guerra, come non ci fossero stati i pogrom ed i terribili massacri, come se gli ucraini non avessero attivamente collaborato, come se migliaia di uomini non avessero vissuto lì per secoli con la famiglia, il lavoro, la casa. Se a Berlino il passato incombe, qui sembra letteralmente scomparso o mai esistito. Nel 1890 dei 10.424 abitanti, 9047 erano ebrei, nessuna testimonianza e nessun ricordo, nulla. Ripenso alle parole di Lerner: -"Ma chi cerca la Galizia ebraica deve venirla a cercare nei boschi, saturi di anime, dove la natura freme ancora per l'ammassamento d'umanità compressa per farcene stare di più, uno sull'altro".-

Boreslaw era un borgo minerario molto importante, soprannominata nel XIX° secolo la California della Galizia, forniva nei primi '900 il 75% del petrolio in Polonia, (mio nonno lavorava lì perché era ingegnere minerario). Dissestata la strada  per arrivarci, buche come voragini, l'autobus caracolla a zigzag per un'ora per fare quei dieci chilometri, poverissimo e tristissimo il paese, una stele scalcagnata si erge in piazza ricordando che l'8 agosto 1944, via i tedeschi sono arrivati i russi. Neanche il mercato per la strada riesce a dare una nota di colore, non so come e dove cercare, per me rimarrà solo quel "nata a Boreslaw" sul passaporto di mia madre, una gran voglia di andarmene via subito, di scappare. Ritornando in treno l'indomani al Lwow vedremo lungo la strada tante raffinerie abbandonate, uniche cattedrali nel deserto rimaste.

Con il marshrutky (l'autobus locale) 722 raggiungiamo per la sera Truskavets, centro termale poco distante; gli autobus per fortuna costano pochissimo, funzionano una meraviglia e sono frequenti. Non riusciamo ad organizzarci come avevamo sognato una giornata termale di fanghi e massaggi e finiamo per farci solo una gran bevuta di "acque" ed una cena chic a base di caviale (uova rosse e grosse buonissime di un pesce non meglio identificato) e varenyky, gli ottimi ravioli locali. La cittadina pare sia molto famosa, una Salsomaggiore locale, difatti per lo standard ucraino è ricca e curata, piena di alberghi e ristoranti, certi lussuosi, chissà se la mamma veniva a Truskavets con i suoi genitori? Tutto ruota intorno alla buvette, le sorgenti di varie acque termali da bersi gratuitamente alla spina nello stabilimento centrale. 



Finalmente una signora ucraina gentile parlante francese ci introduce alla sequenza giusta delle varie acque e temperature per sistemare tutti gli organi, ci compriamo il bricco particolare e  succhiamo dal lungo becco l'elisir di gioventù. 

Lungo la strada principale che gli ospiti percorrono su e giù, tanti sanatori mastodontici dai nomi geografici, Dniepr, Mir e Moldova, il nostro albergo Oriana lascia un pò a desiderare, ma c'è un albero che entra quasi in camera, nessuna zanzara ed è giusto sotto la stazione, domani in tre ore saremo di ritorno al Lwow e poi via per Kiev.


2 commenti:

  1. Sarebbe carino se nel suo racconto chiamasse la citta di Lviv con il suo nome ucraino, e non con il nome russo Lwow.

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