giovedì 30 maggio 2013

città, metropoli, megalopoli

Urbanisti, architetti, paesaggisti, designer: molteplici ora gli indirizzi di studio,  ma un tempo non era così, agli albori del novecento  l'architetto si presenta come un "tuttologo", vero demiurgo globale nell'immaginare e progettare il vivere dell'uomo  dall'oggetto di uso comune, alla singola abitazione, all'organizzazione di intere aree urbane se Walter Gropius fondatore del Bauhaus può riassumere nel 1919 il manifesto-programma del movimento in sole quattro parole "dal cucchiaio alla città", sintesi poi riproposta negli anni 50 da Ernesto Nathan Rogers che ne farà addirittura il titolo di un libro. 

L'architetto come un vero "filosofo" a largo spettro del vivere poiché al di là della registrazione del presente immagina, sogna, denuncia come sarà, potrebbe essere o pericolosamente diventare il futuro dell'abitare. Molte le riflessioni suscitate dalla interessantissima mostra "La città nuova. Oltre Sant'Elia.  1913 Cento Anni di Visioni Urbane 2013" che si tiene a Como nella settecentesca dimora nobiliare Villa Olmo che fra le sue mura ha visto passare personaggi del calibro di un Napoleone e Garibaldi. Complice una domenica finalmente di sole in questo mese di maggio che sembra novembre ci sono andata e ne scrivo subito perché quest'esposizione non bisogna perderla, chiuderà i battenti a metà luglio. Oltre la mostra, in regalo lo spettacolo del lago e delle sculture ispirate al mondo del mare nel giardino davanti alla villa.
Se l'ha intuito la letteratura con scrittori visionari come Jules Verne, non saranno certo gli architetti, reali progettisti delle scatole con porte e finestre che ci contengono, a non capire che il mondo è cambiato prima lentamente poi sempre più in fretta e continua a farlo, che le città si sono trasformate in metropoli e certe perfino in megalopoli visto che ormai quasi il 70% della popolazione mondiale si è trasferita dalle campagne nei centri urbani. Ed ecco allora in visione alcuni esempi che hanno precorso i tempi, che hanno saputo guardare lontano a partire dagli stupendi schizzi e bozzetti presentati per la prima volta nel 1914 in occasione della mostra Nuove Tendenze di quella Città Nuova mai realizzata del comasco Antonio Sant'Elia che accompagnati da un vivace pamphlet rivisto dalla mordace prosa di Marinetti sarebbe poi diventato il Manifesto dell'architettura futurista. 

Ecco gli straordinari bozzetti per la scenografia di Metropolis, capolavoro filmico del 1927 del regista tedesco Fritz Lang ( il film è vedibile in una sala della mostra). Opera che farà dire al grande Bunuel: "il cinema sarà l'interprete più fedele dei più audaci sogni dell'architettura". Realizzati virtualmente sullo schermo con grande effetto suggestivo quei principi di un'architettura che voleva lasciarsi alle spalle "tradizione, stile, estetica, proporzione" un'architettura che nel '900 cerca uno sviluppo "verticale" e sfida il cielo come forse solo le cattedrali gotiche avevano osato nel passato. 

Ecco la silhouette di una città con i grattacieli fra il verde secondo il progetto globale di Le Corbusier per Une Ville Contemporaine de trois millions d'habitants messo a punto con Pierre Janneret e presentato al Salon d'Automne di Parigi nel 1922; progetto ideale di una città da edificare su una pianura vergine. (Con gli amici dell'Associazione Le Corbusier ho avuto il privilegio di visitare nel Punjab Chandigarh, una città questa volta reale progettata e realizzata da "Corbu" negli anni 50).    



Ecco emergere invece nel progetto di  Broadacre di Frank Lloyd Wright il netto rifiuto della grande città di cui New York è simbolo per eccellenza, l'idea di decentralizzazione, di alternativa agli spazi verticali, la sua visione di spazi aperti. Wright propone una "free city", "non semplicemente perché essa è basata sulla unità minima individuale di un acro (o più), ma, ancor più importante perché quando la democrazia costruisce qualcosa, questo è la città naturale della libertà nello spazio, nella quale l'uomo si rispecchia" come leggo nel catalogo della mostra nell'articolo di Jean-Louis Cohen dedicato all'architetto americano. E Cohen scrive ancora:" la città non scompare più tra i vapori dell'inquinamento metropolitano, ma si dissolve nel territorio....."



E in anni più recenti che dire del progetto del 1964 "Walking City: Moving" di Ron Herron o di "No-Stop City. Veduta di città" del 1970 del gruppo Archizoom Associati


o di "Monumento continuo. New-New York" del 1971 di Superstudio o ancora di "The birth of RMB City" del 2009 del cinese Cao Fei? Non sono architetto e non ho competenze in materia, ma leggendo il catalogo e le didascalie esaustive lungo il percorso museale comprendo che si tratta di diverse scuole di pensiero, riflessioni, denunce, proposte, visioni legate di volta in volta ad interrogativi dell'architettura e al contesto storico  del momento. Sono stata però affascinata dallo slancio creativo di questi lavori; forse come per la moda, non è che tutti i modelli incredibili che sfilano in passerella verranno poi realizzati e indossati, ma testimoniano di un potere della fantasia e del pensiero, indicano possibili ed impossibili direzioni e orientamenti.

Non immaginaria ma esistente e reale invece la cotoletta squisita che mi sono mangiata al Ristorante  Il Gatto nero sulle alture di Cernobbio e altrettanto reale la vista mozzafiato che si godeva dalle finestre. Bellissima poi la Villa Bernasconi  in stile liberty acquisita dal comune di Cernobbio.

Per non sprecare il tramonto un giro a fine giornata nella Como storica:

Lo so che separazioni e divorzi vanno per la maggiore, ma per chi ha in progetto di sposarsi, perché non farlo proprio qui, in questo scenario da sogno, come questa bella futura sposina del sol levante?

martedì 28 maggio 2013

Mesa Verde e le case sui dirupi

Oh, finalmente fra cime innevate, rocce rosse giganti, deserti desertici, si profila all'orizzonte in direzione di Mesa Verde qualche scorcio della profonda America come l'immagino, un mastodontico camion rosso tutto tirato a lustro, segni di vita agricola, una fattoria solitaria come nei quadri di Hopper, che ci vuole coraggio a viverci ma piena di fascino per chi la guarda, silos che tra congetture varie ipotizziamo stracolmi di "beans".


Già, a proposito di fagioli, non ne possiamo più, al momento dello spuntino di mezzogiorno nel gruppo esplode la rivolta: basta con chili, enchiladas e fagioli, la passione del capobranco Jere, siamo in America e vogliamo mangiare americano, un buon vecchio hot dog per favore! Sommossa sedata  al  "Milts Legendary Chili" davanti a hamburger e wuerstel di pollo per chi  non mangia maiale e anelli fritti di cipolla, una bomba per il povero fegato, però sono squisiti.

Se per l'Arches National Park tocca passare per Moab, per Mesa Verde la sosta prevista è Cortez, città agricola di 8600 abitanti che si snoda  praticamente su una sola strada che non può che chiamarsi Main Street; aiuto! ci vuole fantasia per trovare cosa vedere e oltretutto piove e fa freddo. C'è chi si mette a giocare a burraco in camera, la sottoscritta meglio che niente va a fare un giro al mega supermarket di fronte all'albergo. Quantità incredibile di merce, bella frutta e verdura impeccabilmente allineate, colpisce una corsia lunghissima solo di cibo per animali, l'equivalente di 10 supermarket di casa nostra. Ma quanti milioni di cani e gatti circolano da queste parti?
 
Buona parte del nostro itinerario si è articolato tra i 1500 e i 2500 metri d'altezza, perché siamo quasi sempre stati sul Colorado Plateau, la più alta regione pianeggiante  degli USA che si estende fra gli stati Utah, Colorado, New Messico e Arizona; nella sezione sud-occidentale di questo vastissimo altopiano del Colorado si trova l'altopiano di Mesa Verde, un altopiano nell'altopiano, se così mi posso esprimere. A Mesa Verde non si va per la natura, pure spettacolare, ma per l'uomo, difatti è il primo parco nazionale degli Stati Uniti, creato nel 1906, destinato alla conservazione dell'opera dell'uomo e riconosciuto come Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco.

Quando arriviamo al mattino presto c'è un tempo da lupi, strada e paesaggi innevati, non  vediamo come ci riuscirà invece al ritorno le vallate sottostanti, punto d'incontro dei vari stati, ma è questione di versante, inoltrandoci nella Mesa troveremo poi persino il sole. Millecinquecento metri circa di passeggiata a piedi e davanti agli occhi la spettacolare Spruce Tree House, uno dei cinque insediamenti "trogloditi" splendidamente conservati, patrimonio di questo parco e di noi tutti.
Mesa Verde è stata abitata dal quinto o sesto secolo fino al 1300 dagli Anasazi (parola indiana navajo che significa "gli antichi"). Gli Anasazi, coltivatori di mais, fagioli e zucche, vivevano in cima alla Mesa in dimore semi sotterranee scavate fino a un metro di profondità nella terra e coperte di un rudimentale tetto di paglia, fango e terra (Pit-houses) poggiato su dei pali semplicemente infilati nella terra.
Non è che tra la fine del XII° secolo e l'inizio del XIII° che si abbandonano queste prime essenziali strutture abitative per costruire in grandi nicchie naturali delle rocce delle articolate abitazioni che si sviluppano in altezza e riconducibili a modelli archetipali delle nostre case odierne. Queste costruzioni sono state abitate per un centinaio di anni e risalgono all'ultimo periodo di occupazione di Mesa verde, il periodo di massimo splendore degli Anasazi.

Gli Anasazi si servivano di sentieri o antesignani dell'odierno free climbing  si arrampicavano per le rocce (grazie a fori da loro scavati) per raggiungere dalle caverne la sommità della mesa dove c'erano le colture; gli alimenti, l'acqua o i materiali di costruzione venivano trasportati in recipienti portati sulla testa o sulla schiena. Come noi usiamo mettere i quadri alle pareti, loro decoravano i muri di motivi geometrici o di rappresentazioni di animali.

Nel loro periodo aulico gli Anasazi hanno raggiunto una notevole abilità nel realizzare manufatti di terracotta decorati come recipienti, ciotole e altri oggetti dalle probabili funzioni rituali, abili anche nell'intrecciare canestri con le fibre vegetali. Verosimilmente erano le donne a praticare queste attività artigianali tramandate di madre in figlia. Intorno al 1300 Mesa Verde viene abbandonata e gli studiosi propongono varie ipotesi, cambiamenti climatici, siccità, sovrappopolazione, guerre interne, incursioni degli Aztechi dal vicino Messico che prendevano gli Anasazi come schiavi, forse tutte queste ragioni insieme.

Tunisia: Matmata
Spruce Tree House è molto più grande di un'abitazione troglodita media. Presenta 114 stanze e 8 "kiva", quelle cerimoniali e  si ipotizza che vi vivevano 100-125 persone. Anche a Matmata in Tunisia ci sono delle case troglodite e naturalmente non posso dimenticare la strepitosa  Petra, tutta scavata nella roccia, l'unicità però di Mesa Verde consiste nella particolare ubicazione di questi villaggi ancestrali ricavati nelle fenditure della pietra, come dei presepi sospesi fra cielo e terra e non a caso vengono chiamati "cliff dwellings", dimore sulle rupi o meglio ancora sul precipizio.



Modernissimo il Chapin Mesa Archeological Museum, con ricca documentazione, filmati, mostre e una libreria.
 




Presente in ogni villaggio troglodita un Park Ranger  che sorveglia i siti e dispensa generosamente spiegazioni. A Spruce Tree House ce n'era una sorridente e simpaticissima e quando ho visto la targhetta appuntata sul petto col suo nome, Jill Blumenthal, non ho potuto fare a meno di ringraziarla e salutarla con un cordiale Shalom!